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Ci sono 49 migranti in balìa del mare e del cinismo dell’Europa, il segretario di Avocats Sans Frontières Italia Tuccillo: “A chi dice aiutiamoli a casa loro rispondo che va bene ma non a chiacchiere”

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Da giorni l’agenda politica italiana ed europea è monopolizzata dalla vergogna di 49 migranti che vagano in un Mediterraneo gelido e agitato a bordo delle due navi umanitarie “Sea Watch” e della “Sea Eye” perchè non si riesce a trovare un luogo di sbarco e non ci sono Paesi pronti ad accogliere questi disperati. Tra loro anche tre bambini. Se ne parla, ma nulla di concreto è stato fatto, a parte la concessione di navigare all’interno delle acque territoriali maltesi per evitare onde che al largo superano i quattro metri. La situazione è sempre più difficile: come ha dichiarato il medico di bordo della “Sea Watch”, Frank Doerner, alle condizioni fisiche precarie si aggiungono lo stress in aumento e una dieta a base di riso e fagioli e basta, che è non certo l’ideale per nessuno, soprattutto per i tre bambini a bordo di cui uno ha solo un anno. Inoltre è previsto un ulteriore peggioramento meteo, con l’arrivo di una massa di aria artica fin sulle sponde dell’Africa settentrionale e temperature di dieci gradi inferiori alla media.

 

Nel frattempo il dibattito italiano si fa sempre più acceso. E le posizioni sono sempre più nette e distinte tra chi si batte per il diritto d’asilo (e il diritto tour court) e chi insiste a ribadire che “ne abbiamo già accolti troppi”.

Nairobi. Capitale del Kenia e metropoli africana che potrebbe attrarre forza lavoro

Da un lato il Papa ha lanciato ieri un appello forte e chiaro affinché i governanti europei diano prova di «concreta solidarietà». Il sindaco di Napoli ha ribadito ancora la disponibilità a ricevere le due navi nel porto partenopeo, che tuttavia è malauguratamente troppo lontano dal tratto di mare in cui si trovano. Ed è infine di stamani la notizia che i presidenti di alcune importanti Autorità Portuali (quelle di Venezia, del Mar Tirreno centrale, di Spezia e di Marina di Carrara) si sono schierati anche loro sul fronte dell’umanità e della legalità: hanno ricordato che il ministro dell’Interno non può vietare l’ingresso ai porti e sottolineato che omettere il soccorso in mare è un reato penale per un soggetto privato, figurarsi per uno pubblico. Inoltre hanno posto in evidenza il vuoto legislativo in cui sono costretti a operare, al di là dei proclami sui social: «Non esiste alcun decreto del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti che chiuda, per motivi di ordine pubblico, i porti – hanno detto. – Non possiamo continuare a leggere di porti da chiudere senza regole».

Sul fronte opposto il ministro dell’Interno Matteo Salvini persiste sulla linea dei porti chiusi a ogni costo. «Non arretrerò di un centimetro» ha dichiarato il vicepremier e leader leghista. E il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, che degli scali marittimi dovrebbe essere il primo responsabile, non fa nulla se non minacciare via Facebook provvedimenti disciplinari contro i presidenti dell’Autorità Portuali, non si sa sulla base di quale norma, visto che un decreto di chiusura dei porti non è mai stato emesso per sua stessa ammissione e che il diritto del mare, che stabilisce l’obbligo di soccorso a chi è in difficoltà, è internazionale e sottoscritto anche dall’Italia.

A mettere in evidenza per primo il vuoto legislativo che fa da sfondo alle affermazioni del governo è stato il segretario generale dell’associazione Avocats Sans Frontières Italia, Francescomaria Tuccillo (nella foto in evidenza), che ha presentato un esposto alle Procure di Roma e di Napoli. Il nostro giornale ne ha dato conto ieri. In questo periodo Tuccillo si trova in Africa: dopo qualche giorno in Zimbabwe, è ora a Nairobi, in Kenya. Lo abbiamo  contattato di nuovo per approfondire e ampliare il tema, che – al di là dei casi inquietanti delle due navi di cui si parla in questi giorni – assume sempre più dimensioni epocali.

I migranti a bordo della “Sea Watch” e della “Sea Eye” sono in totale meno di cinquanta, ma la loro vicenda sta diventando non solo umanamente inaccettabile, ma anche politicamente simbolica. Oltre delle affermazioni di facciata, dal sapore più o meno propagandistico, come pensa si dovrebbe affrontare il problema delle migrazioni?

Innanzi tutto credo sia bene sottolineare le dimensioni storiche e cronologiche del fenomeno migratorio, che affonda le sue radici nel tempo ed è destinato a durare a lungo. L’impoverimento delle popolazioni africane (di cui i paesi occidentali sono in gran parte responsabili perché hanno consumato per secoli le vaste risorse naturali del cosiddetto “continente nero” senza contropartita alcuna per chi vi vive), associato ai cambiamenti climatici e all’assenza di democrazia in molte nazioni, sono all’origine della migrazione biblica cui assistiamo dal Sud al Nord del mondo, motivata da ragioni di pura sopravvivenza.

Chi mette i suoi figli su un barcone insicuro, pagando un prezzo, non compie certo una scelta di diletto: scappa dalla fame, dalla sete, dalle torture e dalla guerra. E continuerà a farlo. Non è quindi proclamando a forza di post e di tweet la chiusura dei porti italiani (peraltro illegale in assenza in un decreto specifico) che si risolverà il problema dei flussi migratori. Il fenomeno meriterebbe una riflessione etica, geopolitica, sociale, economica e legislativa profonda, che vada ben oltre la demagogia di breve termine.

In sintesi, quali le paiono le strade da percorrere?

La prima, nell’immediato, mi pare l’apertura rapida del porto europeo più vicino, sia esso maltese o siciliano, per prestare immediato soccorso a chi ne ha bisogno. Mi auguro che la concreta solidarietà di cui ha parlato Papa Francesco non resti lettera morta o buona intenzione senza seguito affidata a un giornale o a un post. È noto quali siano le vie lastricate di buone intenzioni.

In una prospettiva più ampia, rispondo con due parole: Europa e internazionalità. E mi spiego. È indubbio che l’Europa, tristemente assente dalla scena in questi giorni (e non per la prima volta), dovrebbe invece avere una voce politica forte per poter affrontare con autorevolezza e coesione un dramma che marcherà i prossimi decenni. E sottolineo volutamente l’aggettivo “politica”. Oggi l’Unione non è attrezzata per farlo, perché la sua dimensione è in sostanza puramente burocratica ed economica. Anche se può parere irrealistico, è davvero tempo di ripensare le strutture giuridiche e i trattati europei tornando alle origini, cioè all’idea di Europa dei suoi padri fondatori. Non è questa la sede per approfondire l’argomento, ma occorrerebbe trovare il coraggio di edificare una “nuova” Europa politica in grado di fronteggiare problemi globali che i suoi vecchi e piccoli Stati-nazione di matrice ottocentesca non sanno e non possono risolvere da soli, come dimostrano ogni giorno.

Konrad Adenauer scrisse decenni fa: «L’unità dell’Europa era un sogno di pochi. È stata una speranza per molti. Oggi è una necessità per tutti». Mi pare che la citazione si adatti perfettamente al nostro tempo. Senza Europa, senza una nuova Europa, siamo e saremmo inermi davanti all’evoluzione economica, marginali di fronte alle potenze mondiali antiche e nuove e inefficaci – oltre che inumani – nella gestione del problema migratorio.

E che cosa intende con “internazionalità”?

Nel breve-medio termine, in attesa che questa nuova Europa si costruisca, guardiamo all’Italia e alle sue imprese. Oltre a essere avvocato, sono stato e sono un manager di aziende operanti in diversi settori di attività e ho lavorato per dieci anni in Africa, sia come imprenditore sia come dirigente di grandi gruppi industriali.

È a ragion veduta quindi che vorrei sottolineare come l’Italia possieda un saper fare ineguagliato in termini di competenze professionali, innovazione, prodotti industriali e artigianali, infrastrutture, gestione delle risorse idriche e agricole, produzione e distribuzione di beni di largo consumo. Un saper fare che è apprezzato nel mondo, ma non si internazionalizza a sufficienza. Penso soprattutto alle piccole e medie imprese, che sono la colonna vertebrale della nostra economia, e ai paesi africani come mercato di sbocco.

Il Nord Italia è pieno di società di questo tipo, eccellenti ma troppo spesso ripiegate sul mercato nazionale, intimorite o non aiutate abbastanza a esportare. I loro prodotti – dalle macchine agricole ai mobili, dagli alimentari alle costruzioni – sarebbero utilissimi alle nazioni africane o, per lo meno, a molte tra esse.

Spesso, parlando di Africa, si generalizza a sproposito, sia per quanto riguarda i regimi politici sia per quanto concerne i suoi abitanti. L’Africa è un continente con un miliardo e duecentomila persone e cinquantaquattro nazioni, alcune ancora ancorate a regimi dittatoriali post-coloniali e, in genere economicamente sofferenti. Altre invece in fase di decisa trasformazione, cioè in cammino verso una maggiore stabilità democratica ed economica.

Se nelle nazioni poco democratiche l’intervento politico internazionale è prioritario (da cui la necessità di un’Europa forte sulla scena mondiale), in quelle in evoluzione si potrebbe avviare un percorso di crescita benefico sia per la loro economia sia per il nostro business. In altre parole, se le aziende italiane grandi e medie incrementassero le loro attività africane, potrebbero creare valore per se stesse e lavoro per l’Africa.

Sarebbe questo il modo migliore per aiutare gli africani «a casa loro» e non solo a parole. Ovviamente per farlo occorrerebbe una politica industriale intelligente, lungimirante e, aggiungerei, “umanistica”, cioè guidata non solo dall’interesse di pochi ma dal bene comune di molti.

Più in concreto, quali azioni potrebbero compiersi a breve?

Ce ne sono tante. Innanzi tutto, lo ripeto, sarebbero necessarie una politica industriale e una politica estera coerenti tra loro, attive, strategiche, autorevoli,  dotate di pensiero lungo e aperte al mondo, non ripiegate su se stesse e sulle proprie urgenze elettorali.

Inoltre, per venire ad azioni più immediate, si potrebbe incentivare il counter trading, promuovere un sistema bancario più efficace e competitivo e infine ampliare e dinamizzare il ruolo di Ice, l’agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane, e di Sace, l’azienda della Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe accompagnare l’internazionalizzazione delle aziende con i suoi servizi assicurativi e finanziari. Ice dovrebbe andare oltre compiti puramente rappresentativi e Sace radicarsi nel territorio, fare formazione, aggiornare i suoi dati e comunicare non solo sulle evoluzioni ma anche sulle potenzialità di ogni paese.

Le faccio due soli esempi tra i tanti, relativi ai paesi che ho appena visitato o in cui mi trovo. Pensiamo allo Zimbabwe: se un imprenditore italiano di buon senso guardasse la cosiddetta “scheda paese” sul sito web della Sace, non sarebbe mai propenso a investirvi. Purtroppo i dati risalgono al 2017 e non c’è nessuna informazione sulle ultime evoluzioni di questa nazione. A Harare è insediato, dallo scorso autunno, un nuovo governo, che ha posto fine al potere quarantennale assoluto di Robert Mugabe. È stato annunciato un piano quadriennale di stabilizzazione delle finanze, che ha ricevuto l’approvazione e il supporto del Fondo Monetario Internazionale. E le priorità in termini di infrastrutture, beni di consumo e gestione delle risorse naturali sono molte e promettenti. Varrebbe la pena di esplorarle con attenzione. Quanto al Kenya, è la controprova di quanto ho appena detto. Il paese è in crescita, sono già molte le aziende europee e italiane grandi e medio-piccole che vi sono presenti nei settori delle costruzioni edili, dell’arredamento o del food & beverage. E non ci sono kenioti che emigrano. Nessuno qui si sognerebbe di farlo. 

Senza parlare dell’Angola, nazione ricchissima. Comperare un appartamento in centro a Luanda, la capitale, costa come comprarlo a Manhattan o a Kensington. E addirittura è ora difficile per un italiano ottenere un visto d’ingresso in Angola, così come lo è per un africano ottenerlo in Italia.

Insomma, stiamo attenti a dire “Africa”. Stiamo attenti a non cadere nei luoghi comuni generalizzanti che purtroppo sono entrati a far parte del linguaggio corrente di alcuni tra i nostri politici. L’Africa è grande, varia, ricca di risorse e in evoluzione. E stabilirvi relazioni politiche, economiche e industriali costruttive è non solo positivo per noi e per loro, ma diventerà necessario.

In sostanza politica, economia e industria potrebbero, se efficacemente condotte e coerenti tra loro, aiutare a risolvere anche il problema delle migrazioni?

Sì, in estrema sintesi sì. I problemi epocali del nostro tempo richiedono risposte globali intelligenti e non formule magiche. Una politica lungimirante e generosa, un’economia al passo con i tempi e un’industria aperta davvero al mondo potrebbero, insieme, dare risposte concrete a questo problema. E a molti altri. 

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Kim minaccia uso di armi nucleari in caso d’attacco nemico

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Il leader nordcoreano Kim Jong-un ha assicurato che “tutta la potenza militare” del Paese “sarà usata senza esitazione se i nemici tentassero di usare la forza contro di noi, e l’uso di armi nucleari non sarà escluso”. In un discorso tenuto lunedì durante la visita alla Kim Jong-un National Defense University, il leader ha detto che la Costituzione del Paese “darà un ordine severo all’esercito” di agire, se provocato, senza fornire dettagli, nel resoconto della Kcna. La minaccia è maturata nel giorno in cui il Nord dovrebbe aver aperto la sessione parlamentare per rivedere la Costituzione e consolidare Seul come “nemico primario”.

L’avvertimento di Kim, per altro verso, è arrivato sei giorni dopo che il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha messo in guardia il Nord che si troverebbe ad affrontare “la fine del suo regime” se tenterà di usare armi nucleari con una risposta “risoluta e schiacciante” da parte dell’alleanza Corea del Sud-Usa. Kim, inoltre, ha definito Yoon un “uomo anormale” per aver parlato di azioni militari contro il Nord che è dotato di armi nucleari, assicurando che accelererà le mosse per trasformare il Paese “in una superpotenza militare e nucleare”. In un momento in cui l’alleanza Seul-Washington “è stata completamente trasformata in un’alleanza nucleare, come pubblicizzato, la postura di risposta nucleare della nostra nazione deve essere completata a un’altezza che non ha limiti”.

Nel suo discorso, il leader ha anche ribadito la sua posizione secondo cui la Corea del Sud e la Corea del Nord sono “due Stati ostili l’uno all’altro”. In passato, “abbiamo parlato di liberazione del lato meridionale o di unificazione con la forza. Ma adesso non ci interessa poiché abbiamo dichiarato la posizione di due Stati separati. Non abbiamo intenzione di attaccare la Repubblica di Corea ed è inquietante anche solo essere consapevoli di quel Paese”, ha aggiunto Kim. La Corea del Nord ha rivelato a settembre per la prima volta l’esistenza di un impianto di arricchimento dell’uranio, in un apparente tentativo di dimostrare che Pyongyang non ha intenzione di rinunciare al suo arsenale atomico.

 

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Musk compra voti a Trump: 47 dollari per incentivare l’iscrizione al voto

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Comprare il voto è illegale, sia in Italia che negli Stati Uniti. Negli USA, oltre a non poter comprare voti, è vietato anche pagare qualcuno per iscriversi alle liste elettorali. Tuttavia, un’iniziativa lanciata da Elon Musk (nella foto Imagoeconomica in evidenza) a sostegno di Donald Trump sta sollevando interrogativi sulla sua legittimità. Il miliardario americano ha promesso un incentivo di 47 dollari per chi si iscrive alle liste elettorali in alcuni Stati chiave.

L’iniziativa di America Pac

L’iniziativa parte da America Pac, un’organizzazione a sostegno di Trump che sta investendo decine di milioni di dollari per promuovere la sua candidatura. L’offerta è valida in 7 Stati decisivi per le elezioni, tra cui Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, North Carolina, Georgia, Arizona e Nevada. Chi si iscrive alle liste elettorali o chi firma una petizione a sostegno del Primo e Secondo Emendamento della Costituzione americana (che garantiscono la libertà di parola e il diritto a portare armi) riceverà un premio di 47 dollari.

L’iniziativa si concluderà il 21 ottobre, data entro la quale scadranno i termini per l’iscrizione al voto in molti Stati. Tuttavia, l’incentivo ha suscitato domande sui suoi aspetti legali e sull’effettivo impatto sulla campagna elettorale.

Elon Musk e le strategie elettorali “non tradizionali”

Non è la prima volta che Musk lancia iniziative controverse. Alcuni vedono questa proposta come una delle tante mosse estemporanee del magnate, che spesso cerca di attirare attenzione sui social, in particolare sulla sua piattaforma X (ex Twitter), che conta oltre 200 milioni di follower. Altri, invece, la considerano parte delle cosiddette “strategie non tradizionali” della campagna di Trump, come il ricorso a migliaia di avvocati pronti a contestare l’esito delle elezioni o il cambiamento delle procedure di voto.

Ma perché proprio 47 dollari? Secondo alcune interpretazioni, il numero sarebbe un riferimento al fatto che Trump sarebbe il 47esimo presidente degli Stati Uniti, qualora vincesse le elezioni.

Questioni legali e raccolta di dati

L’iniziativa di Musk non prevede un pagamento diretto per l’iscrizione al voto. Chi partecipa, infatti, riceve il compenso per aver firmato una petizione. Tuttavia, l’intento dell’operazione è chiaro: spingere più persone a registrarsi nelle liste elettorali in Stati strategici per Trump. Questo ha sollevato non solo preoccupazioni etiche, ma anche dubbi sull’acquisizione dei dati personali dei partecipanti. Per firmare la petizione, infatti, è necessario fornire tutte le proprie informazioni, che potrebbero essere utilizzate per scopi politici o di marketing.

In passato, sostenitori di Trump come il conduttore Tucker Carlson avevano promosso app per facilitare l’iscrizione al voto, richiedendo anch’esse la fornitura di dati personali. Queste pratiche mettono in evidenza la sempre più stretta connessione tra politica, tecnologia e utilizzo dei big data nelle campagne elettorali.

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USA impone sanzioni a sostenitori di Hamas: nella blacklist anche un ente di beneficenza in Italia

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Il Dipartimento del Tesoro USA ha aggiunto alla blacklist delle sanzioni tre individui e un ente di beneficenza fittizio, ritenuti essere importanti sostenitori finanziari internazionali di Hamas, insieme a un istituto finanziario controllato dal gruppo palestinese nella Striscia di Gaza. L’azione sanzionatoria include anche un sostenitore di lunga data di Hamas e nove delle sue attività.

Sostenitori finanziari e opere di beneficenza fittizie

Secondo quanto affermato dal Tesoro statunitense, questi individui e organizzazioni svolgono ruoli cruciali nella raccolta di fondi per Hamas, spesso mascherandosi dietro opere di beneficenza. Questi fondi vengono poi utilizzati per finanziare le attività terroristiche del gruppo. Hamas, designato come organizzazione terroristica da numerosi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, utilizza queste strutture per il proprio sostentamento finanziario e operativo.

Sanzioni contro Mohammad Hannoun e l’Abspp

Tra le persone sanzionate figura Mohammad Hannoun, un membro di Hamas con sede in Italia, che ha fondato l’ente di beneficenza chiamato Charity Association of Solidarity with the Palestinian People (Abspp). Secondo il Tesoro USA, l’Abspp è un ente di beneficenza fittizio che, pur dichiarando di raccogliere fondi per scopi umanitari, finanzia in realtà l’ala militare di Hamas. Le autorità statunitensi accusano Hannoun di aver inviato denaro alle organizzazioni controllate da Hamas almeno dal 2018, sollecitando fondi per il gruppo estremista e trasferendo almeno 4 milioni di dollari nel corso di un decennio.

Altri individui sanzionati

Le sanzioni non si fermano solo a Mohammad Hannoun. Il Dipartimento del Tesoro ha sanzionato anche altri due esponenti di Hamas, basati rispettivamente in Austria e in Germania, ampliando il raggio delle misure restrittive contro il gruppo estremista e i suoi sostenitori.

Il ruolo delle sanzioni USA

Le sanzioni rappresentano uno degli strumenti principali con cui gli Stati Uniti cercano di isolare le organizzazioni terroristiche come Hamas dal sistema finanziario globale. L’obiettivo è quello di interrompere i flussi finanziari destinati a finanziare attacchi e operazioni del gruppo, contrastando al contempo il sostegno internazionale che Hamas riceve tramite canali apparentemente legittimi, come enti di beneficenza.

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