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Casamonica, ancora un arresto: stavolta la vittima è un cittadino egiziano in cerca di casa da affittare

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Stavolta la denuncia è di un cittadino egiziano ma dimostra ancora una volta la capacità di intimidazione del clan Casamonica: stavolta l’ordinanza è per Guido Casamonica,71 anni e per Luana Caracciolo, 34 anni. I due sono ritenuti responsabili, in concorso, di estorsione e rapina aggravati dal metodo mafioso e dall’uso di un’arma, nonché di detenzione illegale di una pistola.
Le indagini, tempestivamente avviate a seguito della denuncia di un cittadino di nazionalità egiziana, resa il decorso 9 febbraio presso il Commissariato di P.S. “Viminale”, hanno consentito di far emergere ancora una volta la capacità d’intimidazione del clan Casamonica, esternata attraverso concreti atti di minaccia e di violenza.
A ottobre 2018 il cittadino egiziano,che era alla ricerca di un appartamento da affittare in via Michele Migliarini, entrava casualmente in contatto con Luana Caracciolo alla quale chiedeva se fosse a conoscenza della presenza di abitazioni da locare in quella  via. La donna gli mostrò alcuni appartamenti siti all’interno della villa dove viveva che non venivano presi in considerazione dall’interlocutore in quanto troppo grandi e costosi, e poi gli propose altre unità immobiliari, poco distanti, che erano nella disponibilità della cognata.
A seguito di una serie di contatti intercorsi con la cognata della donna la vittima visionava alcuni appartamenti ubicati all’interno di un comprensorio della zona, scegliendo l’abitazione per la quale era previsto un canone pari a € 450,00.
Raggiunto l’accordo, l’uomo preleva la somma di € 200,00 da uno sportello bancomat e la consegna alla “locatrice” a titolo di caparra, ricevendo una scrittura privata da utilizzare per il cambio di residenza.
Il denunciante poi, nei giorni successivi, versava ulteriori 700,00 euro ad integrazione delle due mensilità da lasciare come acconto.
Recatosi al Comune per trasferire la propria residenza, la persona offesa constatava l’inutilità del documento rilasciatogli, attesa la necessità di un modulo da compilare con l’indicazione del proprietario dell’immobile da consegnare all’Agenzia delle Entrate. Compilato il modulo,il malcapitato scopriva che l’abitazione presa in locazione non risultava censita.
A questo punto la cognata di Luana Caracciolo proponeva di trasferire la residenza presso l’abitazione ove lei stessa viveva unitamente al padre Guido Casamonica, al fratello Diego e alla convivente di quest’ultimo -ovvero la Caracciolo-, facendo sottoscrivere alla vittima dei nuovi documenti.
Anche in questo caso, tuttavia, il Comune non autorizzava il trasferimento in quanto l’immobile indicato dalla vittima non risultava regolarmente accatastato.
Data l’impossibilità di effettuare il cambio di residenza il denunciante decideva di annullare l’accordo economico, chiedendo la restituzione del denaro versato per anticipare le mensilità del canone di locazione.
Da quel momento, tra il denunciante, Luana Caracciolo e la cognata di quest’ultima intercorrevano una serie di contatti telefonici attraverso i quali le due donne inizialmente avevano cercato di temporeggiare per poi “consigliare” all’uomo di rivolgersi a un avvocato. In particolare, la Caracciolo, vista l’insistenza, ribadiva al cittadino egiziano di adire le vie legali “invitandolo” tuttavia ad andare a casa sua per parlare della situazione.
Il 9 febbraio 2019, il cittadino egiziano si presentava senza preavviso presso la villa sita in via Migliarini per discutere della restituzione del denaro anticipato per i canoni di locazione.
In tale circostanza, l’uomo, minacciato con una pistola da Guido Casamonica mentre la Caracciolo interveniva sferrando violenti schiaffi sul capo, veniva costretto a rinunciare alla giusta pretesa risarcitoria.
Contestualmente, i due indagati -non ancora paghi- persistendo nella loro condotta violenta e intimidatoria, obbligavano la persona offesa a consegnare anche la somma in contanti di 700,00 euro, custodita all’interno della sua giacca.
L’approfondita attività investigativa – supportata da riscontri documentali e testimoniali- ha consentito di accertare la veridicità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e di fornire all’A.G. un grave quadro indiziario in merito ai reati contestati, caratterizzati da condotte che evocano la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso.
Gli odierni arrestati hanno infatti lucidamente posto in essere una violenta azione di prevaricazione, certi dell’impunità derivante dal silenzio omertoso della vittima e di eventuali soggetti testimoni.
Condizione che tuttavia in tale circostanza non si è verificata solo perché la vittima, essendo cittadino straniero, non conosceva lo spessore criminale della famiglia nella quale si era imbattuto, salvo poi manifestare vivo terrore appena compreso chi fossero i soggetti con cui si era confrontato.
Il denunciante, infatti, poche ore dopo la verbalizzazione, temendo ritorsioni per la caratura mafiosa dei responsabili dei fatti si presentava nuovamente presso il Commissariato Viminale chiedendo di poter ritirare la denuncia.
Proprio la forza intimidatrice su cui fanno leva gli appartenenti al Clan CASAMONICA, permette loro di attuare condotte di sopraffazione tali da sottomettere i soggetti con cui interagiscono alle loro volontà, creando uno stato permanente di timore che, a sua volta, genera un’omertà tale da rendere abitualmente impunite le loro prepotenze.
I fatti accaduti non sono frutto di occasionalità, ma sono un chiaro e indicativo fenomeno di predominio sul territorio, che consente ai CASAMONICA di affermarsi attraverso condotte sistematiche di violenza e intimidazione, mostrando una spiccata propensione criminale.
Anche l’attività investigativa condotta in occasione della nota e triste vicenda del “Roxy Bar”, verificatasi il 1° aprile 2018, ha posto in chiara evidenza comportamenti idonei a esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni di stampo mafioso, consentendo per la prima volta la contestazione dell’aggravante del metodo mafioso nei confronti di appartenenti alla famiglia CASAMONICA.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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