Collegati con noi

Cronache

Carlo Ancelotti mette il calcio italiano in stato di accusa, basta violenza e razzismo altrimenti meglio chiudere

Pubblicato

del

Carlo Ancelotti è una persona garbata e seria. Non è un guascone. Di norma parla quando e se ha qualcosa da dire. Da un paio di mesi, in ogni occasione, parla di “buona educazione”, “rispetto” nel mondo del calcio. Da qualche mese si dice preoccupato del clima di violenza fisica e verbale e dei cori razzisti insopportabili negli stadi italiani. Il fatto che lui dica queste cose senza guasconerie, senza alzare la voce, senza ergersi a moralizzatore o epigono Masaniello del dorato mondo del pallone significa che il suo atterraggio in Italia è stato molto più difficile di quel che pensasse. Carlo Ancelotti è stato lontano dagli stadi italiani per troppi anni. Ha allenato le migliori squadre al mondo: Chelsea, PSG, Real Madrid, Bayern. É stato protagonista indiscusso su palcoscenici calcistici che in Italia possiamo solo sognare. E in Spagna, Germania e Inghilterra “non ho mai visto la violenza fisica e verbale” cui si è costretti ad assistere in Italia. Carlo Ancelotti aveva dimenticato o forse sperava che qualcosa fosse cambiato in quella che taluni derubricano in tensioni tra tifoserie, “cose da stadio”. L’allenatore che ha vinto tutto, con tutti, dappertutto, a Napoli ha dovuto constatare che in troppi stadi e città d’Italia il clima di odio, anche odio razziale, che lui non conosceva, non conosce e vorrebbe che si combattesse, si sradicasse con serietà. Non con le chiacchiere. Con i fatti.

Quanto accaduto a Milano ha letteralmente sconvolto Carlo Ancelotti. Più passano le ore e più lui resta basito per le modalità di “accoglienza” riservata ai napoletani. I video mandati in onda da tutti i telegiornali del mondo, che circolano nella rete, gli audio choccanti anche di presunti ultras napoletani che parlano dell’aggressione subita, del contrattacco con mazze di ferro, danno solo un quadro preciso di quello che c’è dietro il mondo del calcio. Quanto accaduto a Milano non è un episodio isolato. “L’agguato organizzato ai danni dei napoletani” come dice il questore di Milano Marcello Cardona, era forse uno scontro programmato, forse minacciato via web dagli interisti ma che non avrebbe trovato del tutto impreparati dai napoletani. Anche loro, i napoletani, non vanno certo allo stadio con mazze di ferro o bottiglie di vetro. Avevano con loro armi bianche (mazze di ferro, legni, bottiglie in auto) da usare all’occorrenza. E l’occorrenza c’è stata. L’agguato si è verificato a due chilometri da San Siro, appena un po’ lontano dalle zone di prefiltraggio predisposte dalla questura per evitare scontri. E allora, come tutti possono comprendere, quello di cui stiamo parlando ora non ha nulla a che vedere con la partita di calcio Inter – Napoli, niente a che vedere con le polemiche per l’arbitraggio di Gennaro Mazzoleni, nulla a che vedere anche con i cori disgustosi e razzisti che partivano dalla curva Nord per instillare e sputare odio sui napoletani, su Napoli, su Koulibaly e sulle forze dell’ordine. Chi ha avuto la sventura di essere allo stadio ha trovato riprovevole anche tutto quello. Chi sta accanto ad Ancelotti parla di un uomo letteralmente devastato dal punto di vista psicologico che ripete come un mantra “stanno uccidendo il calcio”, “dobbiamo fare qualcosa”. C’è bisogno di una presa di posizione seria del mondo del calcio. Chi conosce Ancelotti, aldilà dell’ufficialità, delle conferenze stampe, degli allenamenti, delle interviste in cui si parla di progetti, di tattiche, lo descrive come un uomo prostrato per la morte di una persona, distrutto per tutto quello che sente, vede e legge intorno agli scontri, ai feriti e ai morti. Per lui é inconcepibile morire per una partita di calcio. Per uno come lui, quei cori negli stadi riservati ai napoletani, le invocazione al Vesuvio quando l’Etna è in eruzione e ci sono terremoti, o le urla scimmiesche riservate a quel bravo ragazzo di Kalidou Koulibaly sono fucilate al petto che uccidono quel che è ancora vivo del corpaccione molle e corrotto del mondo del calcio italiano. L’inter che prende le distanze dai teppisti, che ripudio il razzismo e che dice a quanti si definiscono interisti ma sono solo teppisti che non sono graditi è un grande segnale. La Roma che solidarizza con Koulibaly e condanna i corsi razzisti non con un messaggio formale ma con un accorato appello è un eccellente segnale. Il messaggio di campioni inarrivabili in campo e fuori come Crisstano Ronaldo o Mauro Icardi che non solo condannano cori e razzisti, che alle parole di disprezzo per il razzismo si mostrano in foto con Kalidou Koulibaly, per dire a tutti “noi siamo tutti Koulibaly” sono cose che leniscono le ferite che lacerano il mondo del calcio. Ma restano pur sempre delle aspirine che non sono utili per curare il cancro della violenza e del razzismo nel mondo del calcio. La questione seria è forse fermare il campionato come si fece in Inghilterra. Applicare senza alcun riguardo le norme federali per punire con severità quanto accade negli stadi, farsi anche aiutare dalla giustizia ordinaria con un codice di reati da stadio che vengono perseguiti e giudicati per direttissima e direttamente nel stadi. E tante altre cose che possono essere prese dalla esperienza inglese. In Inghilterra gli hoolingas sono stati ridotti a mammolette. Con la prevenzione e con la repressione. Se si sposta la questione solo al prossimo morto, al prossimo tafferuglio, alla prossima imboscata, ai prossimi cori razzisti, il calcio morirà. Tocca aspettare e capire che cosa partorirà l’autorità di governo e il sistema calcio. Certo c’è poco da stare allegri con un ministro dell’Interno che trova normale andare in curva a San Siro a festeggiare con un gruppo ultrà rossonero. C’è poco da stare sereni se davanti allo squallore sempre di San Siro la procura federale della Federcalcio (Giuseppe Pecoraro) dice che la partita andava sospesa, il presidente della Federcalcio (Gabriele Gravina) sostiene che occorrono norme (che già esistono e sono state già più volte richiamate) ancora più stringenti per fermar le partite e il presidente dell’Associazione italiana arbitri attacca brutalmente il procuratore federale dicendogli, in estrema sintesi, di tace, di fare il suo mestiere e di non interferire. Quel poco che possiamo dire noi, per quel che ne sappiamo, è che Carlo Ancelotti, quando ha detto che alla prossima occasione (e statene certi ci sarà presto) che sentiranno cori razzisti e l’arbitro non farà niente, lui porterà la sua squadra negli spogliatoi. Non è una cosa da niente quella detta da Ancelotti. Anche perchè Carlo Ancelotti non parla per dare fiato alla bocca. E se ha detto quelle cose, vuole dire che ne ha parlato con Aurelio De Laurentiis. Perchè poi è lui il proprietario del Napoli, Ancelotti ne è solo in condottiero in panchina. Insomma, per dirla alla Ennio Flaiano, cari tifosi, come al solito, in Italia “la situazione è tragica ma non è seria”.

Advertisement

Cronache

Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

Pubblicato

del

Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

Continua a leggere

Cronache

Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

Pubblicato

del

Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

Continua a leggere

Cronache

Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

Pubblicato

del

Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto