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Economia

Cara Meloni, stai scaricando le tasse sugli host italiani non stai facendo pagare di più alle Internet company Usa

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Vi sembrerà un articolo lungo ma vi preghiamo di arrivare fino in fondo perchè cercheremo di spiegare perchè aumentare le tasse per chi dà in affitto una casa per brevi periodi è ingiusto, sbagliato e rischia di avere ripercussioni sul piano economico e sociale.

Vogliamo provare a fare chiarezza su quanto sta accadendo nel mondo degli affitti brevi, delle piattaforme, dei redditi e delle rendite di chi ha una seconda casa e la da in fitto, oppure – invece di acquistare per esempio la licenza di un taxi o pagare la ceditura di un negozio- compra qualche appartamento da ristrutturare e prova a camparci grazie ai turisti.

Facciamo anche una premessa: non riusciamo davvero a capire che cosa ci guadagnano gli albergatori se i proprietari di case da affittare per pochi giorni o per molti giorno pagano più tasse. Davvero credono che i clienti correranno negli alberghi? Ma in quali alberghi?
Le stelle degli alberghi, spesso e volentieri, sono quelle di …Negroni, altro che indicatori di alcuni parametri! Gli alberghi spesso e volentieri – come hanno dimostrato tante denunce anche dei consumatori – non sono al top per le pulizie. Troppi albergatori hanno privilegiato l’aumento del numero delle camere a scapito dei servizi, soprattutto in molte celebrate località turistiche. Insomma a chi giova questa caccia al proprietario, l’host come lo chiamano le piattaforme di ricerca posti per le vacanze che proprio in questa figura hanno trovato la loro fonte di reddito.

Facciamo i conti in tasca all’host

Supponiamo che fitti una camera per due persone a 100 euro al giorno, in regime di fitti brevi, quindi con cedolare secca. E che sia la seconda casa che affitta, magari perché le ha avute in eredità e purtroppo le precedenti esperienze con inquilini ‘non’ brevi non sono andate bene perché sono troppi quelli che affittano e dopo qualche mese smettono di pagare…
Dunque 100 euro per una notte, camera venduta attraverso una piattaforma famosa. Ecco: la piattaforma prende una cifra tra 18/20 per cento per la transazione (intanto li prende anche un mese prima e li gira al proprietario anche un mese dopo…) sulla cifra lorda perché dal 2019 funziona così.
A questi 18/20 euro bisogna aggiungere una percentuale sulla transazione economica ( il proprietario di case lascia che sia la piattaforma ad incassare) che porta via altri 3/4 euro.
Da alcuni mesi, poiché è stato chiesto alle piattaforme straniere che operano in Italia di pagare anche l’Iva (e meno male) queste hanno pensato bene di prendersi i soldi dagli ‘host’: si tratta del 22 per cento sulla transazione, cioè altri 5 euro circa. Che non si possono scaricare, l’host che non ha un b&b o un albergo NON scarica niente. Da 100 euro siamo già a scesi a circa 70 euro. A questo si aggiungono le spese per portare avanti l’appartamento da dare in fitto. E cioè le pulizie, la biancheria, le utenze (se non ci sta il climatizzatore neppure viene presa in considerazione la casa…) che, tenendosi bassi incidono per altri 15 euro almeno. Perché se c’è una colf va inquadrata, e le lenzuola se si noleggiano costano meno che lavare e stirare in casa…

E siamo arrivati a 55 euro circa. A questo punto le tasse, che possono incidere sui 100 iniziali per 21 euro – con le vecchie norme – che diventano 26 euro. Così si arriva a 30 euro netti, euro più, euro meno. Se non ci sono imprevisti e senza contare la manutenzione. Lo scaldabagni che si rompe, l’ospite che rompe un bicchiere, la tinteggiatura delle pareti almeno a inizio stagione…Insomma non è che ci si arricchisca ma in una città (parliamo di città che vivono qualche difficoltà come Napoli o altre al Sud) questo sistema di affitti brevi ha contribuito a far respirare quartieri difficili, dove ora si va senza paura. Perché dunque inasprire una tassazione già molto alta? Perché non consentire almeno di detrarre le spese, che sono tante e provare davvero a organizzare una rete di accoglienza per turisti che in albergo non ci andranno lo stesso?

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Economia

Ricavi Essilux corrono anche nel 2025, affronta dazi Usa

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I ricavi di EssilorLuxottica crescono con forza anche nel primo trimestre dell’anno: l’aumento è del 7,3% contro il 4,7% dell’intero 2024. Confermati tutti gli obiettivi, con il gruppo che sta studiando “misure per contrastare l’impatto dei dazi statunitensi sulle importazioni”. Cosa che non sorprende, visto che il Nord America rappresenta una fetta cruciale dei ricavi del gigante delle lenti e dell’occhialeria. “Negli Usa ci stiamo muovendo verso un adeguamento dei prezzi a una sola cifra per le diverse linee di prodotto e per il nostro canale di distribuzione”, spiega Stefano Grassi, direttore finanziario del gruppo, rispondendo agli analisti sui dazi durante la conference call sui conti.

“Ovviamente non siamo immuni ai venti contrari delle tariffe: il 43% del nostro fatturato è realizzato negli Stati Uniti, ma direi che i principali” problemi “al momento riguardano le montature prodotte in Cina e importate negli Usa”, spiega. Nel dettaglio, nei primi tre mesi dell’anno i ricavi consolidati per EssilorLuxottica sono stati di 6.848 milioni di euro, con un aumento che arriva all’8,1% a cambi correnti. Il Nord America è in crescita del 4%, mentre l’Asia e Pacifico aumenta a doppia cifra, “con la solida performance delle soluzioni per la gestione della miopia in Cina”

. Il gruppo, nonostante il momento internazionale incerto, conferma l’obiettivo di crescita del fatturato annuo ‘mid-single digit’ dal 2022 al 2026 a cambi costanti, puntando a un range di 27-28 miliardi di euro. “Nel primo trimestre abbiamo mantenuto una solida traiettoria di crescita grazie al contributo di tutte le aree geografiche e di tutti i business”, commentano Francesco Milleri (foto Imagoecoomica in evidenza), presidente e amministratore delegato, e Paul du Saillant, vice amministratore delegato. Ma Milleri vuole anche ricordare Papa Francesco, con il quale ha recentemente collaborato. “Siamo concentrati sui risultati del gruppo ma, mentre continuiamo a portare avanti il nostro lavoro, i nostri pensieri vanno anche al Santo Padre. Ho avuto il privilegio di realizzare con lui un progetto visionario che oggi è una realtà tangibile nel cuore di Roma: l’Ospedale Isola Tiberina. Ci uniamo al cordoglio per la sua scomparsa, ricordandolo come un esempio di vita per milioni di persone nel mondo”, conclude il numero uno del gruppo nato dalla fusione con la Luxottica fondata da Leonardo Del Vecchio.

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Economia

Fmi ai paesi Ue, piani credibili per spese della difesa

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I conti pubblici globali peggiorano: il debito pubblico salirà quest’anno sopra il 95% e, nello scenario peggio, potrebbe schizzare nel 2027 al 117% del pil, il livello più alto dalla seconda guerra mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale mette in guardia sul deterioramento delle finanze pubbliche in un contesto di rallentamento dell’economia globale a causa dei dazi. E ai paesi europei impegnati ad aumentare le spese per la difesa dice: servono piani credibili per finanziare gradualmente una maggiore spesa in modo da evitare che emergano delle “vulnerabilità”.

“Per i paesi che si trovano ad affrontare nuove esigenze di spesa, per esempio nell’ambito della difesa, è essenziale dimostrare un forte impegno per la sostenibilità a la prudenza di bilancio, garantendo allo stesso tempo la trasparenza”, osserva il Fondo invitando ad accompagnare qualsiasi aumento permanente delle spese fiscali per gli investimenti e la difesa con una maggiore “efficienza della spesa, una migliore pianificazione di bilancio pluriennale e da previsioni macroeconomiche migliorate per garantire valutazioni realistiche del loro impatto sulla crescita economica”. “Viviamo insieme questo momento storico”, ha detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti incontrando i funzionari italiani del Fondo.

“Noi cercheremo di farlo al meglio, voi continuate con la consueta professionalità e dedizione. Migliorarci ancora di più per superare gli ostacoli e avere un lieto fine”, ha detto il ministro. L’analisi del Fmi arriva mentre gli Stati Uniti assicurano il loro sostegno all’istituto di Washington e alla Banca Mondiale ma chiedono riforme per le due istituzioni di Bretton Woods affinché tornino alle loro missioni originarie, segnalando di fatto di volerle – nella loro condizione di maggiore azionista – cambiare. “America First non significa America Alone. Al contrario, è un invito a una più profonda collaborazione e al rispetto reciproco tra i partner commerciali”, ha spiegato Bessent.

“Lungi dal fare un passo indietro, America First cerca di espandere la leadership degli Stati Uniti in istituzioni internazionali come il Fmi e la Banca Mondiale”, ha aggiunto il segretario al Tesoro rimproverando al Fondo un “ampliamento della sua missione”. L’istituto “un tempo era irremovibile nella sua missione di promuovere la cooperazione monetaria globale e la stabilità finanziaria. Ora dedica tempo e risorse sproporzionate al lavoro sui cambiamenti climatici, sul genere e sulle questioni sociali”, ha notato. Simili le critiche alla Banca Mondiale. “Non dovrebbe più aspettarsi assegni in bianco per un marketing insipido e incentrato su slogan, accompagnato da impegni di riforma poco convinti”, ha aggiunto Bessent.

La Banca Mondiale, nella sua missione originale, “deve utilizzare le sue risorse nel modo più efficiente ed efficace possibile. E deve farlo in modi che dimostrino un valore tangibile per tutti i paesi membri”. Il Fmi e la Banca Mondiale hanno un ruolo critico nel sistema internazionale. E l’amministrazione Trump vuole lavorare con loro, a patto che rimangano fedeli alla loro missione”, ha spiegato il segretario al Tesoro Scott Bessent. Nello “status quo non sono all’altezza”, ha aggiunto.

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Generali al voto per il nuovo cda, incognita Unicredit

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Tutto è pronto a Trieste per l’assemblea di Generali chiamata il 24 aprile a nominare il nuovo cda di 13 consiglieri. Un passaggio delicato ma non definitivo per la stabilità della compagnia; il suo maggior azionista Mediobanca infatti è sotto scalata da parte di Mps e rischia di dover lasciare spazio in futuro nella governance a Francesco Gaetano Caltagirone e alla Delfin degli eredi Del Vecchio. Il voto degli azionisti, grandi e piccoli, darà un’indicazione delle forze in campo. I soci hanno tempo per registrarsi fino a giovedì mattina ma le prime indicazioni danno già una partecipazione record, con oltre 600 persone attese al Convention Center affacciato sul mare, in rappresentanza di circa il 70% del capitale.

Si erano presentati in 450 nel 2019, ultima assemblea in presenza ma il record di rappresentatività, nella storia recente della compagnia, è stato raggiunto nel 2022, quando la partecipazione ha toccato il 70,7% del capitale. Piazzetta Cuccia (azionista con il 13,1%) ha presentato una lista di maggioranza dove ha ricandidato, oltre al presidente Andrea Sironi e a una bella fetta del board uscente, anche l’amministratore delegato Philippe Donnet. Caltagirone e Delfin gli contestano l’alleanza nel risparmio con i francesi di Natixis, che secondo i due soci espone al rischio, un timore condiviso dall’attuale governo, di portare all’estero i risparmi degli italiani.

Si calcola che questa lista possa contare sul 35% dei voti, aggregando buona parte del favore dei fondi che in assemblea dovrebbero pesare per il 25% del capitale. In mancanza di una seconda lista lunga, senza un candidato alternativo al ruolo di ceo e senza un piano, è sui nomi proposti dalla banca guidata da Alberto Nagel che verosimilmente convergeranno i voti degli investitori esteri, seguendo i consigli dei proxy. La platea è nutrita e va da Blackrock (3,5%) a Vanguard (3%), da Norges Bank (3%) ad Amundi e molti hanno già dichiarare il loro voto a favore della lista di Mediobanca (Norges stessa e inoltre Calpers, Calstr, Florida State Board of Administration, CPP Investments). Non c’è infatti un vero e proprio sfidante perché la lista di Caltagirone (6,9%), che oltre che da Delfin (9,9%) e dalla Cassa Forense (1%) potrebbe essere votata da Fondazione Crt (1,9%), è ‘corta’, con 6 nomi e nessuna indicazione per i vertici; alla conta ci si aspetta che coaguli a suo favore circa il 20% del capitale.

I fondi italiani di Assogestioni, tra cui anche le società di gestione del gruppo Intesa Sanpaolo, non sono schierati e con lo 0,7% del capitale hanno presentato una lista di minoranza, e possono ambire a uno, massimo due consiglieri. Edizione dei Benetton (4,8%) che tre anni fa aveva appoggiato la lista del gruppo romano, potrebbe invece astenersi. C’è poi almeno un ‘convitato di pietra’ al tavolo del Leone: il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti. Il Mef è presente nell’azionariato dell’istituto senese che si prepara a lanciare un’ops su Mediobanca ma è anche arbitro del risiko bancario dove è appena intervenuto nell’esercizio dei poteri speciali del governo nella partita Unicredit/Banco Bpm. Interpellato in merito un portavoce della Commissione ha fatto un richiamo sui principi a cui si dovrebbero attenere gli Stati, ricordando che “le restrizioni alle libertà individuali siano consentite solo se proporzionate e basate su un legittimo interesse pubblico”.

Andrea Orcel, ceo del gruppo di Piazza Gae Aulenti, sarà l’ago della bilancia e la vera incognita in questa assemblea. Secondo gli ultimi aggiornamenti Consob ha in portafoglio il 5,2% delle Generali, il golden power è stato uno ‘sgambetto’ nella corsa verso Banco Bpm (quest’ultima riunisce il cda il 24 aprile) e il suo voto potrebbe tenerne conto, allontanandolo dall’asse romano. A osservare il risiko, mantenedosi ai margini, c’è Intesa Sanpaolo, ad oggi concentrata sul 29 aprile quando la sua assemblea rinnoverà il cda confermando, nelle attese, l’ad Carlo Messina per un altro mandato.

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