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Politica

Campi Flegrei, polemica sulle parole del ministro Musumeci: «Non si doveva edificare»

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Ha scatenato una vera e propria bufera politica la dichiarazione del ministro della Protezione Civile Nello Musumeci sui Campi Flegrei: «In quell’area non si poteva edificare». Parole pronunciate ieri mattina alla Camera durante un’informativa urgente sulla situazione nell’area vulcanica napoletana e che hanno sollevato immediate reazioni dalle opposizioni.

Musumeci: «Urbanizzazione irresponsabile»

Secondo Musumeci, «in un’area coincidente con uno dei vulcani più pericolosi al mondo, un’accurata e responsabile programmazione urbanistica avrebbe dovuto impedire fin dal dopoguerra ogni attività edificatoria». Attualmente, ha ricordato il ministro, circa 100mila persone sono esposte a un rischio molto elevato. Nonostante ciò, il governo Meloni rivendica un intervento deciso: «Dal settembre 2023 abbiamo stanziato 52 milioni di euro per affrontare le criticità e dotare amministrazioni e popolazione degli strumenti necessari per gestire il rischio».

La reazione delle opposizioni

Il sindaco di Napoli e presidente nazionale dell’Anci, Gaetano Manfredi, replica sottolineando che «la convivenza con il rischio fa parte della contemporaneità. In Italia esistono tantissime aree a rischio sismico, vulcanico o alluvionale dove si è edificato». Manfredi invita piuttosto a concentrarsi sulla sicurezza delle strutture e su efficienti sistemi di emergenza.

Anche Marco Sarracino (PD) esprime critiche: «Serve più personale per gestire l’emergenza e misure concrete a sostegno delle imprese e delle famiglie. Ad oggi non ci sono risposte sufficienti».

Ancora più dura la posizione del deputato di Avs Francesco Borrelli: «Siamo al paradosso di colpevolizzare i cittadini dei Campi Flegrei, trattati come nessun altro territorio d’Italia».

Antonio Caso, deputato M5S, denuncia l’immobilismo del governo: «In questi anni abbiamo presentato decine di proposte per aiutare il territorio, tutte respinte». Sergio Costa, ex ministro dell’Ambiente, parla di parole «largamente insoddisfacenti» del ministro Musumeci e invita ad «andare oltre le polemiche e agire in modo pragmatico».

Appello alla partecipazione e responsabilità

Il ministro Musumeci ha inoltre richiamato i cittadini all’importanza della partecipazione alle esercitazioni, evidenziando la scarsa adesione nel recente passato. Ma questa affermazione ha ulteriormente alimentato il dibattito, con le opposizioni che chiedono un maggiore supporto istituzionale al territorio piuttosto che accuse verso i residenti.

La polemica, dunque, resta accesa, mentre cresce la preoccupazione per la gestione futura di un’area altamente vulnerabile.

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Saragat, il padre della socialdemocrazia raccontato da sua figlia: «La sua ultima parola fu: “Mamma”»

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«Dove i rapporti sono umani la democrazia esiste, dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide». È una delle tante lezioni lasciate da Giuseppe Saragat (foto Imagoeconomica in evidenza), uno dei padri fondatori della Repubblica italiana, uomo di cultura, statista, antifascista, presidente della Costituente e primo socialista al Quirinale. A ricordarlo oggi, in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, è la figlia Ernestina, che alla soglia dei 97 anni ricostruisce con lucidità e affetto la figura del padre e i momenti cruciali della storia d’Italia vissuti al suo fianco.

L’UOMO E IL PADRE

«Era un padre affettuoso e severo, ma lasciava a me grande libertà», racconta Ernestina, nata a Vienna durante l’esilio. Una vita fatta di fughe e clandestinità, accanto alla madre Giuseppina Bollani, «forte e discreta», e a fianco di compagni di lotta come Pietro Nenni e i fratelli Rosselli. Quando questi ultimi vennero assassinati dai fascisti nel 1937, Saragat ne fu devastato.

L’ANTIFASCISMO E IL CARCERE

Fu arrestato nel 1943 a Bardonecchia, liberato solo grazie all’intervento di Bruno Buozzi, il quale verrà poi ucciso dai nazisti. Dopo un passaggio nella famigerata via Tasso fu trasferito a Regina Coeli, nel braccio della morte. La fuga rocambolesca organizzata da Vassalli e Giannini salvò lui e Sandro Pertini. «Non volevano lasciare indietro gli altri detenuti, stavano per compromettere tutto».

LA SCISSIONE E LA SOCIALDEMOCRAZIA

Nel 1947 Saragat lasciò la presidenza della Costituente dopo la scissione di Palazzo Barberini. Nacque allora la via italiana alla socialdemocrazia. Le critiche furono dure, ma lui non rinunciò mai al dialogo, neanche con chi lo aveva attaccato. Anticomunista convinto, fu tra i primi a condannare con fermezza l’invasione dell’Ungheria e le derive totalitarie sovietiche.

SETTE ANNI AL QUIRINALE

Diventò Presidente della Repubblica nel 1964, dopo una lunga maratona elettorale. Da Capo dello Stato visitò Auschwitz, accolse Shimon Peres, fu ricevuto dalla regina Elisabetta, da Kennedy, Nixon e Johnson, a cui parlò dei bombardamenti in Vietnam. «Era amico di Israele, ma contrario a ogni sopruso», ricorda la figlia.

MORO E LE BRIGATE ROSSE

Durante il sequestro Moro, Saragat sostenne la necessità di trattare con le Brigate Rosse. «Era convinto che lasciare Moro nelle mani dei suoi carcerieri fosse un errore gravissimo». A confermare il loro legame una lettera ritrovata nel covo delle Br, in cui Aldo Moro lo ringraziava per le sue parole di solidarietà.

L’UOMO PRIVATO

Era colto, ironico, severo. «Diceva che solo lui e non Togliatti avevano letto tutto il Capitale», racconta Ernestina. Dopo la morte della moglie, fu devastato. «La sua ultima parola fu: “Mamma”, riferita a lei». E fu Pertini a salutarlo per l’ultima volta, poggiando una rosa rossa sul suo letto.

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De Luca dice che “il lavoro andrà avanti, le forze del male non prevarranno”. Ma nel Pd è gelo

Dopo il no della Consulta al terzo mandato, il governatore rilancia: «Presto sorprese». Intanto Schlein chiude: «Nessuna trattativa con lui».

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«Il lavoro in corso andrà avanti. Le forze del male non prevarranno». Con queste parole sibilline, Vincenzo De Luca torna protagonista della scena politica campana, nonostante il no definitivo della Consulta al suo terzo mandato. Un’espressione criptica, ribadita più volte nella consueta diretta settimanale, che ha lasciato interdetti anche i suoi più fedeli collaboratori, colti di sorpresa in un clima di incertezza che accompagna il futuro dell’attuale presidente della Regione Campania.

Il gelo del Pd nazionale

Nel frattempo, il Partito Democratico romano sembra aver chiuso la porta in faccia a qualsiasi ipotesi di negoziato. Gli inviati della segretaria Elly Schlein, Igor Taruffi e Davide Baruffi, in un incontro fiume a Napoli, hanno ribadito: «Nessuna trattativa con De Luca», ignorando di fatto ogni ipotesi di continuità politica col governatore uscente. Un segnale chiaro anche ai consiglieri regionali che in passato avevano sostenuto la norma sul terzo mandato: oggi, sotto la lente della segreteria nazionale, preferiscono riallinearsi con la linea ufficiale.

Intanto si consolidano le voci di un accordo in chiave progressista su un candidato espresso dal M5S, con Roberto Fico, Sergio Costa o Mariolina Castellone tra i nomi in campo. Lo dimostra anche l’incontro tra Taruffi, Baruffi e il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, svoltosi a Palazzo San Giacomo, lontano da Palazzo Santa Lucia, oggi simbolo di una gestione che il Pd nazionale sembra voler archiviare.

Il messaggio deluchiano: attenzione a darmi per finito

Eppure, De Luca non intende farsi da parte in silenzio. Anzi, lancia segnali che sanno di sfida: «Nei prossimi giorni dirò qualcosa sulle prossime scadenze istituzionali della Regione Campania: avrete delle sorprese. Visto che siamo a Pasqua, lo dico in termini evangelici: le forze del male non prevarranno». Un messaggio forte, che suona come un avvertimento politico e che riapre il dibattito sulle sue reali intenzioni: appoggerà un candidato civico? Tenterà una mossa a sorpresa?

L’ipotesi di un suo candidato terzo, sostenuto da liste civiche e da forze centriste, sembra sempre meno praticabile: mancherebbero i numeri e il consenso politico necessario. Ma la sua presenza mediatica e istituzionale resta imponente.

I risultati rivendicati e l’orgoglio di governo

Nella stessa diretta, De Luca non ha rinunciato a sottolineare i risultati del suo decennio di governo:
«Sulle liste d’attesa saremo tra le prime due regioni d’Italia, forse la prima. Il 95% dei cittadini riceve la prima visita entro 10 giorni, il 50% entro 72 ore se urgente».
Poi ancora: «Abbiamo trasformato la Campania da regione dei rifiuti a modello di efficienza amministrativa. Abbiamo rinnovato il trasporto pubblico locale e conquistato bandiere blu. Vediamo di non perdere per strada quanto conquistato».

Un confronto inevitabile

Malgrado il gelo, le due anime del centrosinistra dovranno tornare al tavolo dopo le festività. Nessuno può permettersi una campagna elettorale in cui il Pd si ritrovi apertamente contrapposto a chi ha guidato la Regione per dieci anni. Da qui, forse, il senso più profondo dei messaggi deluchiani: avvisare che è ancora in gioco, che le sue mosse non sono finite.

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Politica

Ursula sente Giorgia: bene, ma con Trump tratto io

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Qualsiasi passo per facilitare i rapporti transatlantici è il benvenuto, ma la trattativa non può che restare in capo alla Commissione. All’indomani della missione di Giorgia Meloni a Washington, Ursula von der Leyen non cambia la linea che ha adottato sin dai giorni che precedevano il viaggio oltreoceano della presidente del Consiglio italiana. Un viaggio che, stando a quanto raccontano fonti europee, non ha certo intaccato gli ottimi rapporti tra la presidente dell’esecutivo Ue e Meloni. Le due leader si sono confrontate, come da accordi, prima e dopo l’incontro alla Casa Bianca.

Una missione “positiva”, spiegano fonti della Commissione, sottolineando come l’iniziativa italiana abbia rappresentato un’ulteriore “chance per costruire ponti” tra le due sponde dell’Atlantico. Von der Leyen, quindi, ha incassato l’assist che Meloni le ha porto grazie alla sua ‘special relationship’ con Donald Trump. Non poteva fare altrimenti, anche perché c’è un dato da non sottovalutare: da quando il presidente americano è alla Casa Bianca i contatti con von der Leyen sono stati inesistenti. E non è un caso che, nell’incontro con la stampa allo Studio Ovale, Trump abbia parlato di interlocuzioni con alcuni leader europei, senza neppure nominare i vertici comunitari.

Da qui, il ragionamento che circola al tredicesimo piano di Palazzo Berlaymont: qualsiasi tentativo di agevolare il negoziato tra Washington e Bruxelles da parte di un singolo capo di Stato o di governo non può essere ignorato. Le immagini del bilaterale tra Meloni e Trump sono state vagliate con attenzione dall’inner circle di von der Leyen. La sensazione, viene spiegato, è stata positiva. Nessuna parola fuori sincrono è arrivata da Meloni. E il dato è stato particolarmente apprezzato. La telefonata tra von der Leyen e Meloni è arrivata poco dopo l’incontro della premier con il vice presidente americano J.D. Vance a Roma. È stata una conversazione breve, focalizzata sul punto più delicato dell’attualità europea: la guerra dei dazi.

A Bruxelles hanno ben presente un calendario che non prevede eccezioni: il 23 aprile si chiuderà la procedura scritta che formalizzerà la sospensione delle tariffe anti-Usa da parte dell’Ue. Da allora, sul tavolo, ci sono 90 giorni per negoziare. La deadline cadrà a metà luglio. Ovvero dopo due occasioni nelle quali von der Leyen e Trump avranno finalmente la possibilità di incontrarsi. La prima, in Canada, dove avrà luogo il summit del G7. La seconda a L’Aja, in occasione del vertice Nato. Entrambe cadono a giugno. Ed è dopo il secondo appuntamento che gli sherpa europei e americani potrebbero inserire l’atteso summit tra Trump e i vertici Ue. Magari proprio a margine del Consiglio europeo che si terrà subito dopo il summit Nato nei Paesi Bassi. Nel frattempo, spiegano a Bruxelles, proseguono i colloqui tecnici tra l’amministrazione Trump e l’Ue sul fronte dei dazi.

Un punto, per la Commissione, resta invariato: l’obiettivo è trovare un’intesa che eviti danni all’economia globale ma, allo stesso tempo, le contromisure, in caso di fallimento della trattativa, restano sul tavolo. Ed è qui che, nel ragionamento di von der Leyen, le posizioni della presidente della Commissione e di Meloni sono chiamate a separarsi. La missione dell’italiana, viene spiegato, è stata “un’occasione utile per creare ulteriori ponti” con l’amministrazione Trump “nel rispetto dei diversi ruoli, come già affermato dalla stessa Meloni”. Il negoziato, questo il punto sul quale la Commissione non arretrerà, resta in capo a Palazzo Berlaymont. Lo prevedono i Trattati e il ruolo di sintesi al quale è chiamata la stessa von der Leyen. Le sensibilità tra i 27 restano diverse. Sulla missione di Meloni le cancellerie europee hanno mantenuto un prudente silenzio. A parlare sono state le testate dei grandi Paesi del Vecchio continente. I più scettici sono stati il francese Le Monde e lo spagnolo El Pais. Non è un caso. Toccherà a von der Leyen e al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa trovare un punto di equilibrio sulla strategia da adottare nel negoziato con gli Usa. Forse in un summit ad hoc, da tenersi a maggio, subito dopo che la Germania avrà formalizzato il suo governo.

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