Un miracolo di Pasqua come estremo simbolo di resurrezione. Theresa May si aggrappa alla tradizionale pausa parlamentare di primavera, apertasi oggi e destinata a concludersi martedi’ 23 dopo la Settimana Santa, per giocare le poche carte che le rimangono in mano sulla Brexit dopo il nuovo rinvio flessibile, ma condizionato, impostole ieri dai leader dei 27 a Bruxelles: carte da giocare sulle chance di un compromesso con l’opposizione laburista di Jeremy Corbyn, o comunque d’uno straccio di accordo da far passare a Westminster – dopo una lunga sequela di fallimenti -, possibilmente entro i tempi ristrettissimi utili a evitare l’incognita mortificante di un’ormai quasi certa partecipazione del Regno al voto europeo. La proroga al 31 ottobre definita dal vertice Ue – ne’ corta ne’ lunga, secondo la soluzione improvvisata nella notte per rattoppare le divisioni tra Germania e Francia – riapre in effetti in qualche modo la partita. Ma la riapre al buio, con uno scenario di opzioni di nuovo tutte possibili (da una Brexit piu’ soft, all’ipotesi dello scioglimento della Camera e di elezioni politiche anticipate, di un referendum bis o persino di una revoca tour court del divorzio), eppure tutte problematicamente incerte. Un panorama di fronte al quale la premier Tory si presenta segnata dall’ennesima “umiliazione” in sede europea, stando alla lettura dei media d’oltremanica. Con spazi di manovra sempre piu’ asfittici e senza piu’ nemmeno lo spauracchio d’un no-deal imminente. E tuttavia per ora in sella. Nel suo statement post-summit alla Camera dei Comuni, la May in ogni caso tira dritto, puntando sullo sfinimento altrui. Ribadisce di essere “intensamente frustrata” per aver dovuto chiedere e accettare l’ulteriore rinvio. Ma sottolinea che l’estensione al 31 ottobre e’ “flessibile” e che lascia Londra libera di uscire in qualsiasi momento, laddove un accordo fosse ratificato. Epilogo che resta ai suoi occhi un fatto di “interesse nazionale” e allo stesso tempo “un dovere per la politica”, chiamata a “rispettare il risultato del referendum” del 2016. Le intimazioni a dimettersi che ormai le arrivano in faccia da colleghi di partito dell’ala brexiteer ultra’ come Bill Cash, Mark Francois o’ Steve Baker non la scuotono piu’ di tanto. Neppure quando uno dei ribelli, Peter Bone, si spinge a lanciare apertamente la candidatura di Boris Johnson per la sua poltrona. Se non abbiamo lasciato l’Ue il 29 marzo, la colpa non e’ mia, ma proprio dei falchi e di chi ha contribuito ad affondare la maggioranza sull’accordo di recesso raggiunto con Bruxelles fin da novembre, replica loro. Notando come il Paese sia tenuto ad affrontare ora una fase di proroga, “con tutti gli obblighi”, ma anche “tutti i diritti di uno Stato membro”, non senza aggiungere che questo limbo puo’ tuttavia essere abbreviato. Per farlo la strada e’ quella di “un compromesso trasversale”, ripete a macchinetta rivolgendosi anche e soprattutto ai banchi del Labour. E l’invocazione e’ di “utilizzare bene” il tempo del rinvio e della pausa pasquale. Pausa durante la quale il negoziato con l’opposizione e’ destinato a proseguire, come conferma Corbyn definendo i colloqui in corso “seri”. Ma non senza avvertire che il governo deve riconoscere “il fallimento” della sua strategia originaria e superare le “linee rosse” ribadite ancora da alcuni ministri come l’euroscettico Liam Fox contro la permanenza di Londra in una “unione doganale” europea. Altrimenti, avverte il ministro ombra della Giustizia laburista, Richard Burgon, la strada delle elezioni anticipate o d’un secondo referendum – che molti pro Remain rilanciano ai Comuni come possibilita’ sempre piu’ concreta a dispetto dei no della May – “diverra’ necessaria”.