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Boris Johnson entra a Downing Street, fa la squadra dei ministri subito e promette la Brexit entro il 31 ottobre

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La Brexit nelle mani di chi l’ha voluta: Boris Johnson prende possesso di Downing Street, fra le speranze chi lo ama e le prime vibranti proteste di strada di chi lo detesta, e cambia subito musica rispetto alle cautele di Theresa May. Con un discorso di esordio ottimistico fino all’azzardo, da motivatore piu’ che da uomo politico, in cui conferma l’obiettivo di portare il Regno fuori dall’Ue il 31 ottobre, nel giro di 99 giorni, come lui stesso sottolinea, “costi quel che costi: senza se e senza ma”. Nessuna sfumatura di prudenza nelle sue parole, nessuna esitazione. La squadra di governo viene rivoluzionata, con nomine a propulsione brexiteer. E l’obiettivo viene dichiarato apertamente, assieme a una lista di promesse mirabolanti che potrebbero diventare anche il manifesto propagandistico di una futura campagna elettorale, qualora il banco dovesse saltare in direzione di un prossimo voto politico anticipato. “Un nuovo accordo con l’Ue”, un accordo di divorzio “migliore per tutti”, e’ possibile, sentenzia Johnson, ma il tempo dei rinvii e’ finito. Bisogna smentire “i pessimisti”, chi non crede “alla nostra capacita’ di onorare il mandato democratico” del referendum del 2016, dimostrare che “i critici e i dubbiosi si sbagliano”, incalza. L’opzione del no deal resta dunque sul tavolo, un epilogo “remoto” a cui tuttavia il Paese deve prepararsi laddove “Bruxelles rifiutasse ogni ulteriore negoziato”, nelle parole di Boris: parole che in fondo richiamano il gioco del cerino. L’approccio e’ volontaristico, da tribuno se non da condottiero. Johnson si dice convinto, senza spiegare come, di poter allontanare il vincolo del backstop sul confine irlandese – ostacolo cruciale finora a Westminster alla ratifica d’una qualunque intesa – e con un calembour ironizza: “Never mind the backstop, the buck stops here” (“la responsabilita’ ora e’ mia”). Un concetto su cui insiste senza posa, a voce alta, in barba agli insulti e agli slogan delle centinaia di manifestanti che l’accolgono sventolando bandiere europee, dopo che un’avanguardia di attivisti di Greenpeace aveva gia’ cercato di sbarrare la strada al suo corteo nel tragitto verso Buckingham Palace al momento di ricevere la designazione formale dalle mani della regina nel previsto passaggio di consegne con la May. E a cui aggiunge l’impegno di “servire il popolo”, d’investire nelle infrastrutture dei trasporti con una politica economica pro business, d’incrementare i fondi all’istruzione e di trovare addirittura “20 miliardi di sterline” in piu’ per la sanita’, d’incentivare i settori della tecnologia e della ricerca scientifica, di fare di piu’ per il welfare. Fra l’altro. Prospettive entusiasmanti, in una narrativa in cui ricorre l’aggettivo “fantastico”, caro all’amico Donald Trump, che le opposizioni – dal Labour di Jeremy Corbyn, ai Libdem della neo leader Jo Swinson, agli indipendentisti scozzesi dell’Snp di Nicola Sturgeon – bollano come vuota “retorica” infarcita di “spacconate e bluff”. Ma che Boris lega alla convinzione che la Gran Bretagna ce la possa fare come tante altre volte nella storia; che dopo “tre anni di infondata sfiducia in noi stessi” si debba “cambiare spartito”, scommettere sulle “ambizioni” d’un Paese che nessuno puo’ “sottostimare”. Al suo fianco, una compagine totalmente trasformata. Fuori quasi tutti i moderati e i fedelissimi della May, incluso Jeremy Hunt (che lascia il Foreign Office dopo la sconfitta nel ballottaggio per la leadership Tory con Johnson). Dentro giovani rampanti della nuova destra e brexiteer radicali. Mentre Sajid Javid, figlio d’immigrati pachistani, viene promosso da titolare dell’Interno a cancelliere dello Scacchiere. E un posto chiave di consigliere a Downing Street va pure a Dominic Cummings, controverso guru della campagna referendaria di Vote Leave tre anni fa, descritto da alcuni come un genio, da altri come uno psicopatico o uno spregiudicato utilizzatore di fake news, la cui figura e’ stata interpretata da Benedict Cumberbatch nella recente serie tv ‘Brexit, The Uncivil War’. Un team che apre non pochi dubbi a Bruxelles, da dove peraltro continuano a rimbalzare le offerte di dialogo a Johnson: purche’ su questioni concrete.

Si completano le nomine nei ruoli piu’ importanti del nuovo governo britannico di Boris Johnson, con l’ingresso di altri brexiteer, ma con piu’ volti nuovi, piu’ donne e piu’ esponenti delle minoranza in posizioni di peso rispetto alla compagine uscente di Theresa May. Una compagine quasi completamente trasformata, e nettamente piu’ ‘di destra’ dal punto vista ideologico, sullo sfondo di quella che il Sun descrive come “un bagno di sangue” politico o, ironicamente, come “la notte dei coltelli biondi”. Le ultime designazioni vedono l’ascesa del super euroscettico e tradizionalista Jacob Rees-Mogg a Leader of The House, ossia ministro dei Rapporti con la Camera dei Comuni; e quella di James Cleverly, brexiteer di origini familiari caraibiche, a presidente del Partito Conservatore e ministro senza portafoglio.

Fra le donne arrivano le pro Brexit radicali Andrea Leadsom (Business e Industria), Esther McVey (Edilizia ed Enti Locali), mentre Liz Truss va al Commercio e la piu’ moderata Nicky Morgan alla Cultura. Resta infine al Lavoro, con l’aggiunta delle Questioni Femminili, Amber Rudd, pro Remain, ma protagonista con una giravolta recente di un’apertura a un possibile divorzio no deal dall’Ue. Fra le poche figure moderate, Matt Hancock rimane alla Sanita’ e Jo Johnson, fratello europeista di Boris, torna al governo come viceministro dell’Universita’ ed Energia. Fra gli esponenti delle minoranze, infine, oltre a Cleverly e alla scelta di Sajid Javid (radici pachistane) come cancelliere dello Scacchiere, e di Priti Patel, (radici indiane) come ministra dell’Interno, si fanno largo altre due figure emergenti di origini indiane: Alok Sharma, che diventa ministro per Cooperazione Internazionale, e Rishi Sunak, 38 anni, Primo Segretario del Tesoro.

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Mosca, 2 morti per attacco ucraino con droni a Belgorod

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E’ di due morti il bilancio di un attacco ucraino con droni nella regione russa di Belgorod. Lo annuncia il governatore Vyacheslav Gladkov. – “In seguito al rilascio di due ordigni esplosivi, un edificio residenziale privato ha preso fuoco – ha scritto su Telegram il governatore Vyacheslav Gladkov -. Due civili sono morti, una donna che si stava riprendendo da una frattura al femore e un uomo che si prendeva cura di lei”.

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La Nato verso nuovi Patriot e Samp-T all’Ucraina

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Da Capri a Bruxelles a Washington, l’Occidente imbocca la strada per concretizzare gli aiuti militari – compresa la difesa aerea – essenziali per Kiev in difficoltà nella guerra. Durante il Consiglio Nato-Ucraina con Volodymyr Zelensky, il segretario generale Jens Stoltenberg ha assicurato che “presto” ci saranno nuovi annunci sui sistemi di difesa per il Paese invaso. “L’Alleanza ha mappato le capacità degli alleati, ci sono sistemi che possono essere dati all’Ucraina”, ha riferito Stoltenberg al termine dell’incontro. “In aggiunta ai Patriot ci sono altri strumenti che possono essere forniti, come i Samp-T”, quelli a produzione franco-italiana. Un annuncio che arriva mentre prendono corpo i “segnali incoraggianti” evocati dal segretario di Stato Usa Antony Blinken: dopo mesi di stallo, la Camera americana ha spianato la strada ai quattro provvedimenti per gli aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan, mettendo in agenda il voto per domani.

E il Pentagono si sta preparando ad approvare rapidamente un nuovo pacchetto di aiuti militari che include artiglieria e difese aeree: secondo una fonte americana, parte del materiale potrebbe raggiungere il Paese nel giro di pochi giorni. In generale, per Kiev in ballo ci sono gli oltre 60 miliardi di dollari di forniture per le forze armate che – ha ricordato Blinken – “faranno una differenza enorme”. “Se i nuovi aiuti non verranno approvati c’è il rischio che sia troppo tardi”, ha ammonito il ministro degli Esteri Usa, mentre Zelensky ha ribadito l’allarme: i soldati “non possono più attendere” la burocrazia occidentale, la Nato deve dimostrare “se siamo davvero alleati”. La situazione sul terreno “è al limite”, ha aggiunto il leader ucraino al segretario della Nato Da parte dell’Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha “confermato quello che ha detto il presidente del Consiglio” sul fatto che il nostro Paese “farà il possibile per la protezione aerea dell’Ucraina”, mentre Kiev vuole dagli alleati ogni sistema disponibile, dai moderni Patriot – “almeno altre sette sistemi” – ai Samp-T italo-francesi. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha partecipato al Consiglio Nato-Ucraina, nel quale si è convenuto sulla necessità di uno sforzo ulteriore per sostenere Kiev. L’Italia ragiona sugli ulteriori aiuti militari da fornire quanto prima all’Ucraina e sul tavolo – si apprende – c’è la possibilità di un nuovo decreto per l’invio degli armamenti.

Anche se Crosetto ha più volte sottolineato che quasi tutto ciò che si poteva dare è stato dato. Già a Capri, dove ha partecipato al G7 Esteri, Stoltenberg aveva confermato la volontà degli alleati di accelerare sulla difesa aerea ucraina. E nel loro documento finale, i Sette ministri hanno espresso la “determinazione a rafforzare le capacità di difesa aerea” del Paese invaso, confermando l’impegno a lavorare per esaudire le richieste di Kiev, ribadite anche dal capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba, tra gli ospiti del summit in Italia. Il sostegno del G7 è pronto a tradursi anche in ulteriori sanzioni contro Teheran “se dovesse procedere con la fornitura di missili balistici o tecnologie correlate alla Russia”.

Il Gruppo ha poi puntato il dito contro la Cina, chiedendo nel suo documento finale di “interrompere” il sostegno alla macchina bellica di Mosca. Infine, i Sette hanno ribadito l’impegno ad attuare e far rispettare le sanzioni contro i russi, minacciando di “adottare nuove misure, se necessario”. In vista del vertice dei leader in programma a giugno in Puglia, il G7 lavora inoltre alle “possibili opzioni praticabili” per usare i beni russi congelati a sostegno dell’Ucraina, “in linea con i rispettivi sistemi giuridici e il diritto internazionale”. Finora l’Ue ha trovato le basi legali solo per l’uso degli extraprofitti, ma bisogna ancora capire se si può fare un passo in più mettendo le mani direttamente sugli asset.

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Teheran avverte Israele, ‘non fate altri errori’

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“Un fallimento”, “fuochi d’artificio”, “la situazione è completamente normale”. La Repubblica islamica tace sulle esplosioni o minimizza l’attacco notturno, attribuito a Tel Aviv, che ha colpito una base militare a Isfahan nel giorno dell’85esimo compleanno della Guida suprema Ali Khamenei. Vari esponenti del governo e delle forze armate iraniane hanno continuato a minacciare una “risposta massima e definitiva” contro lo Stato ebraico mentre l’attacco veniva sminuito. Secondo Teheran, le esplosioni sentite nella notte sono dovute al sistema di difesa iraniano che ha preso di mira “mini droni di sorveglianza americani o israeliani”, lanciati a meno di una settimana dall’attacco dell’Iran contro Israele, in ritorsione per l’uccisione di sette membri delle Guardie della rivoluzione in un raid contro l’ambasciata iraniana di Damasco.

Dopo la chiusura, temporanea, dello spazio aereo su Teheran e altre città, i media della Repubblica islamica si sono affrettati ad assicurare che, in seguito all’abbattimento di “oggetti volanti sospetti”, la situazione era tornata alla completa normalità mentre i siti nucleari nella zona non sono stati danneggiati dall’attacco, come confermato anche dall’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), e hanno continuato ad operare “in totale sicurezza”. L’attribuzione dell’attacco a Israele è stata inizialmente bollata come “un’assurdità” dal comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, mentre il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha negato di aver tenuto una riunione d’emergenza, smentendo indiscrezioni apparse sui “media stranieri”. Il governo di Teheran e i vertici militari hanno evitato in ogni modo di parlare direttamente dell’attacco, con l’eccezione del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian che, senza esplicitamente accusare lo Stato ebraico, ha definito l’attacco un “fallimento”, dipinto come una vittoria ed “esagerato dai media filo israeliani”, sottolineando che i droni sono stati abbattuti senza causare danni o vittime.

“La nostra prossima risposta sarà immediata e ai massimi livelli nel caso in cui il regime di Israele si imbarchi nuovamente in avventurismo e intraprenda azioni contro gli interessi dell’Iran”, ha ribadito Amirabdollahian, affermando che un eventuale risposta “decisiva e definitiva” contro Israele è già stata pianificata nel dettaglio dalle forze armate iraniane. La responsabilità di Israele è stata comunque indicata da figure politiche minori. Come il deputato Mehdi Toghyani, secondo cui “il disperato tentativo del regime sionista, con l’aiuto di agenti locali, di portare avanti un attacco con vari piccoli droni contro una base militare di Isfahan è fallito e ha portato loro ulteriore disgrazia”. Più cauto Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri e negoziatore per Teheran all’epoca dell’accordo sul nucleare del 2015, che ha chiesto alla comunità internazionale di fermare Israele “alla luce degli imprudenti fuochi d’artificio di Isfahan”.

Nessun commento sull’attacco da Khamenei, come anche da parte del presidente Ebrahim Raisi, che ha completamente ignorato i fatti di Isfahan durante un’apparizione pubblica a Damghan, nella provincia settentrionale di Semnan. “Questa operazione ha dimostrato l’autorità del sistema della Repubblica Islamica e la potenza delle nostre forze armate”, ha detto il presidente iraniano tornando a parlare della ritorsione di Teheran contro Tel Aviv per il raid di Damasco.

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