Bonafede dà i numerì: 12 morti, 16 evasi, decine di feriti, penitenziari distrutti, milioni di euro di danni e nessuno che si dimette
Il ministro Guardasilli Alfonso Bonafede parla di autorevolezza dello Stato in Senato spiegando la rivolta nelle carceri con 12 morti, 16 evasi, decine di feriti, penitenziari distrutti e milioni di euro di danni. Chi si aspettava che si presentasse almeno con le dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini è rimasto deluso. Anche se era forse il minimo sindacale davanti alla figuraccia mondiale cui l’Italia è stata ed è esposta.
”Il bilancio complessivo di queste rivolte e di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti per cause che, dei primi rilievi, sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte all’infermeria durante i disordini”. Il quadro delle rivolte nelle carceri, con i numeri agghiaccianti di morti, feriti, evasioni di mafiosi e devastazioni (il ministro qui non dà una cifra, ma i sindacati di polizia parlano di milioni di euro di danni) lo fa il responsabile del Dicastero della Giustizia Alfonso Bonafede intervenendo in Senato sull’emergenza nelle carceri. Parlando ai senatori di questa guerra, che getta discredito sul Paese, facendolo sembrare all’estero quasi in balia dei detenuti, dice “stiamo parlando di rivolte portate avanti da almeno 6.000 detenuti su tutto il territorio nazionale che, di fatto, hanno messo in evidenza le già note carenze strutturali del sistema penitenziario”.
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il ministro Bonafede con il capo del Dap Basentini e un poliziotto della penitenziaria
Bene, il punto è non tanto la diagnosi del male ma che cosa si è fatto. Bonafede ha ringraziato “la Polizia penitenziaria e tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria perchè, ancora una volta, hanno dimostrato professionalità, senso dello Stato e coraggio nell’affrontare, mettendo a rischio la propria incolumità, situazioni molto difficili e tese in cui, ciò che fa la differenza è spesso la capacità di mantenere i nervi saldi, la lucidita’ e l’equilibrio nell’intuire e scegliere, in pochi istanti, la linea di azione migliore per riportare tutto alla legalita’. Mi piace sottolineare – ha proseguito il Guardasigilli – che in tutti i casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le Forze dell’ordine sono intervenute senza esitare rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando”.
A che cosa si riferisca il ministro non è immediatamente comprensibile. Non c’è stata alcuna carica della polizia, nessuna repressione delle rivolte, addirittura ci sono stati colloqui tra Stato (rappresentato da magistrati, questori, prefetti) e rappresentanti dei detenuti che aveva devastato le carceri. Solo al termine di questi colloquio la protesta è rientrata e i detenuti sono tornati in cella. Pronti ad uscire, quando vorranno, perchè vogliono l’indulto. E qualche mascherina per paura del contagio da coronavirus. Sul numero degli evasi, Bonafede dice che “allo stato risultano latitanti 16 detenuti che erano soggetti al regime di media sicurezza”. Tutte le evasioni sono avvenute nel carcere di Foggia, penitenziario che ha riportato a seguito della rivolta dei detenuti “gravi danni strutturali”. Quanto al carcere di Modena, teatro della rivolta più cruenta, con 9 morti, “gran parte dell’istituto è diventato inagibile”. Davanti a questo spettacolo indecente, il ministro Bonafede si è presentato come un notaio. Ha dato atto di quel che è accaduto ed ha detto che “è un momento difficile per il Paese, ma è nostro dovere chiarire, tutti insieme, che lo Stato italiano non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità”. Ma come? Promettendo ai detenuti di discutere di indulto e altri provvedimento per alleggerire la pressione? Facendo entrare la droga nel carcere di Poggioreale e altri penitenziari allentando i controlli nei pacchi? Oppure costruendo altre carceri e assumendo altri poliziotti in modo da rendere la certezza della pena qualcosa di serio e non una barzelletta? E poi, quello che davvero sconcerta in un Paese che si vuole definire civile, è l’etica della responsabilità. Davanti a 12 morti (9 nel carcere di Modena e 3 in quello di Rieti), davanti ai danni per milioni di euro a strutture pubbliche, davanti a quelle immagini di rivolta che hanno fatto il giro del mondo, sarebbe stato bello se il ministro portasse al Senato almeno il dimissionamento del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Forse è un ottimo magistrato, ma in quel ruolo ha dimostrato di essere inadatto.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.