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Birmania, la repressione è una carneficina anche di bimbi: 90 morti per soffocare nel sangue le proteste

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E’ stato “il giorno della vergogna”, il piu’ sanguinoso dall’inizio delle proteste contro il golpe: oltre 90 persone sono stati uccise oggi in almeno 14 citta’ della Birmania, portando il bilancio della repressione armata a oltre 400 vittime. Un massacro arrivato poche ore dopo le minacce della tv statale contro chiunque manifestasse, mentre nella capitale Naypyidaw un esercito sempre piu’ isolato a livello internazionale inscenava un’imponente parata annuale che, in un Paese ormai in fiamme, e’ il simbolo dell’universo alternativo in cui si muovono i generali. Come in altre giornate di sangue, la maggior parte delle vittime di oggi si contano a Mandalay (29 morti) e l’ex capitale Yangon (24), dove migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade in diverse aree cittadine. I proiettili dell’esercito hanno ucciso persino un bambino di 5 anni a Mandalay e una 13enne nella non lontana citta’ di Meikhtila, mentre un bambino di un anno e’ stato ferito a un occhio da un proiettile di gomma. Il fatto che si contino morti in almeno 14 citta’, a cui si sommano precedenti vittime in ulteriori localita’, da’ l’idea di quanto sia diffusa l’opposizione popolare al colpo di stato, anche dopo un messaggio diffuso ieri dalla tv statale che minacciava i manifestanti di essere colpiti da proiettili “alla testa o alla schiena”, intimando loro di “imparare la lezione da chi e’ morto brutalmente” e “non morire per niente”. La repressione armata di oggi e’ avvenuta nella festa nazionale della Giornata delle forze armate, ribattezzata dai manifestanti ‘Giornata contro la dittatura militare’. In una ricorrenza che ricorda l’inizio della resistenza agli invasori giapponesi nel 1945 (capeggiata dal padre di Aung San Suu Kyi), l’esercito che celebra quella data e’ ora visto dalla popolazione come l’illegittimo occupante. Cio’ non ha impedito al generale golpista Min Aung Hlaing di tenere un discorso di 30 minuti alle truppe, rinnovando l’impegno a tornare al voto dopo un anno ma anche definendo inaccettabili “atti di terrorismo che possono essere nocivi alla tranquillita’ e sicurezza dello Stato”. Alla parata militare a Naypyidaw c’erano pochissime delegazioni straniere. Spiccava la presenza di quella cinese e di quella russa, capeggiata dal viceministro della Difesa Alexander Fomin.

Le cancellerie occidentali hanno pero’ declinato l’invito, condannando le uccisioni di oggi senza mezzi termini. L’ambasciata dell’Unione europea ha parlato di “giorno di terrore e disonore”, definendo “atti indifendibili” le uccisioni di civili inermi. Su Twitter, l’ambasciatore americano ha condannato “l’orribile” massacro, rimarcando come le forze di sicurezza stiano uccidendo “le stesse persone che hanno giurato di proteggere”. E un leader dell’opposizione anti-giunta formata da legislatori deposti, il dottor Sasa, ha deplorato quello di oggi come “un giorno di vergogna per le forze armate”. In tale clima, trovare un compromesso appare sempre piu’ difficile. L’esercito e i suoi oppositori parlano linguaggi non comunicanti, definendo la parte opposta “terroristi”. L’impegno dei militari di tornare a elezioni al termine dello stato di emergenza di un anno appare sempre piu’ una chimera, data la determinazione a difendere con la forza una presa del potere che ha stroncato un decennio di nascente democrazia, per non parlare delle accuse multiple contro l’ex leader del governo Aung San Suu Kyi. Fiaccata da intimidazioni giudiziarie e arresti, la stampa indipendente non esiste piu’: l’ultimo quotidiano privato ha chiuso pochi giorni fa. Con scioperi generali ancora attivi e l’economia nazionale in caduta libera, il generale Min Aung Hlaing si e’ mostrato finora immune alle pressioni internazionali, arroccandosi attorno al sostegno cinese e russo. Tutto fa pensare che ai morti di oggi ne seguiranno molti altri.

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L’Australia esorta i suoi cittadini a lasciare Israele

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Il governo australiano ha esortato i suoi cittadini in Israele a “andarsene, se è sicuro farlo”. “C’è una forte minaccia di rappresaglie militari e attacchi terroristici contro Israele e gli interessi israeliani in tutta la regione. La situazione della sicurezza potrebbe deteriorarsi rapidamente. Esortiamo gli australiani in Israele o nei Territori palestinesi occupati a partire, se è sicuro farlo”, secondo un post su X che pubblica gli avvisi del dipartimento degli affari esteri e del commercio del governo australiano.

Il dipartimento ha avvertito che “gli attacchi militari potrebbero comportare chiusure dello spazio aereo, cancellazioni e deviazioni di voli e altre interruzioni del viaggio”. In particolare è preoccupato che l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv “possa sospendere le operazioni a causa di accresciute preoccupazioni per la sicurezza in qualsiasi momento e con breve preavviso”.

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Ian Bremmer: l’attacco di Israele è una sorta di de-escalation

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C’è chi legge una escalation e chi invece pensa che sia una de escalation questo attacco israeliano contro l’Iran. “È un allentamento dell’escalation. Dovevano fare qualcosa ma l’azione è limitata rispetto all’attacco su Damasco che ha fatto precipitare la crisi”. Lo scrive su X Ian Bremmer, analista fondatore di Eurasia Group, società di consulenza sui rischi geopolitici.

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Usa bloccano bozza su adesione piena Palestina all’Onu

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Gli Usa hanno bloccato con il veto la bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che raccomandava l’adesione piena della Palestina alle Nazioni Unite. Il testo ha ottenuto 12 voti a favore (Algeria, Russia, Cina, Francia, Guyana, Sierra Leone, Mozambico, Slovenia, Malta, Ecuador, Sud Corea, Giappone), 2 astensioni (Gran Bretagna e Svizzera) e il no degli Stati Uniti.

La brevissima bozza presentata dall’Algeria “raccomanda all’Assemblea Generale che lo stato di Palestina sia ammesso come membro dell’Onu”. Per essere ammessa alle Nazioni Unite a pieno titolo la Palestina doveva ottenere una raccomandazione positiva del Consiglio di Sicurezza (con nove sì e nessun veto) quindi essere approvata dall’Assemblea Generale a maggioranza dei due terzi.

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