Collegati con noi

Esteri

Bayrou premier, ‘davanti a noi l’Himalaya del deficit’

Pubblicato

del

Finalmente premier. François Bayrou, centrista da sempre isolato nella Francia dei tempi del bipolarismo, alla fine c’è riuscito. Non ha raggiunto il suo sogno, l’Eliseo, ma non si è lasciato sfuggire la poltrona numero 2 di Francia, quella di palazzo Matignon. Vinta la prima tappa, Bayrou, 73 anni, da una vita in politica, si è però trovato davanti “l’Himalaya del deficit”. Lo ha ammesso lui stesso congedando il predecessore e coetaneo Michel Barnier nel passaggio di consegne. E pensando già a cosa potrebbe aiutarlo nella salita più difficile: la prudenza di Marine Le Pen, che con lui ha da tempo un canale di dialogo privilegiato. Poi il patto che Emmanuel Macron gli ha preparato con la gauche, la non sfiducia. Insomma, Bayrou, sei figli dalla moglie Elisabeth e una quindicina di nipotini, prova a scalare l’Himalaya con l’aiuto del suo unico vero amico, re Enrico IV, al quale ha dedicato libri e studi.

E un’idea forte: “Riconciliare i francesi”. Proprio come fece, 500 fa, il suo re. E’ una mattinata senza fine e finora la più fredda della stagione quella che ha portato allo stringato comunicato dell’Eliseo con la nomina di Bayrou, favorito da giorni, ma improvvisamente inciampato nel no di Macron. Alle 8.30 lo hanno visto entrare dal portone principale dell’Eliseo, sembrava andare tutto come previsto, ma sull’agenda del presidente c’erano parecchi altri nomi. E la notte aveva convinto Macron a nominare qualcun altro: c’è chi dice Roland Lescure, ex ministro dell’Industria, giovane, nato socialista, poi diventato macroniano; oppure Sébastien Lecornu, ex ministro della Difesa macroniano pure lui con corsia preferenziale in direzione Le Pen.

La temperatura nello studio di Macron ha raggiunto in breve livelli di guardia, il racconto trapelato ai media parla di un Bayrou furioso, che ha minacciato di ritirare i suoi dal blocco centrale che sostiene dal 2017 i governi dell’epoca Macron. Poco meno di due ore dopo, Bayrou se n’è andato da una porta secondaria, mentre le tv e i siti dei media si dicevano certi che la sua sorte fosse segnata. Ma gli altri nomi erano spariti dall’agenda, gli appuntamenti annullati e lui sapeva di aver toccato i tasti giusti con l’uomo che, nel 2017, contribuì a far salire all’Eliseo.

“Non ignoro nulla dell’Himalaya che si erge davanti a noi”, ha detto qualche ora dopo, esprimendo “gratitudine” a Michel Barnier durante il passaggio delle consegne nel gelo del cortile di Matignon. I conti pubblici, il bilancio, il deficit “sono sempre stati al primo posto nelle mie campagne elettorali – ha ricordato -, anche quando mi davano del pazzo. Nessuno più di me conosce la difficoltà della situazione” politica e di bilancio del Paese. Questo perché il deficit di bilancio “è una questione che pone un problema morale, non solo finanziario”, ha aggiunto.

Marine Le Pen, che da lui ha ricevuto solidarietà quando è andata sotto processo per le irregolarità degli assistenti degli europarlamentari (accusa in cui è incorso anche Bayrou e dalla quale è risultato per il momento prosciolto), non lo ha silurato subito: “Non agito la minaccia della mozione di sfiducia”, ha detto la leader del Rassemblement National, ma al tempo stesso “non ho preso impegni per la non sfiducia”. Siamo “estremamente prudenti – ha spiegato -, io aspetto di vedere come costruirà la manovra”.

Attesa e “non sfiducia” anche dalla gauche – nel rispetto del patto stipulato dalle forze politiche non estreme martedì scorso con Macron – a patto che Bayrou non ricorra all’articolo 49.3, quello che consente ai governi di far passare una legge “di forza”, senza voto in parlamento, ponendo la fiducia. Pure i Républicains non lo sfiduceranno, anche se non entreranno nel governo. Bayrou è quindi atteso al varco della dichiarazione di “politica generale” davanti ai parlamentari. L’Himalaya del nuovo premier, far digerire una finanziaria pesante alla gauche e all’estrema destra senza prendere la scorciatoia del voto di fiducia, è davanti a lui. “Cercherò di riconciliare i francesi, come fece il mio amico re Enrico IV – ha detto, ripetendo a tutti di essere stato nominato nel giorno del compleanno del suo idolo -. Non soltanto è necessario, ma è l’unico cammino che ci può condurre al successo”.

Advertisement

Esteri

Zelensky: lunedì uccisi 20 alti ufficiali nordcoreani e russi

Pubblicato

del

Le forze ucraine hanno ucciso lunedì scorso (3 febbraio) 20 alti ufficiali nordcoreani e russi durante un attacco a un posto di comando nella regione russa di Kursk: lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, come riporta RBC-Ucraina. “Hanno colpito un centro di controllo lì. Prima di avanzare 2,5 chilometri, le nostre truppe hanno colpito il centro di controllo nella regione di Kursk”, ha detto Zelesnky. “Mi è stato detto che probabilmente sono stati uccisi 20 ufficiali. Tra loro ci sono alti ufficiali nordcoreani e russi”, ha aggiunto. RBC-Ucraina ricorda che il 3 febbraio l’aeronautica militare ucraina ha lanciato un attacco di precisione contro un centro di controllo e comando russo a Novoivanivka, nel Kursk. L’esercito ucraino continua la sua offensiva in questa direzione e, secondo Zelensky, le Forze armate di Kiev sono riuscite ad avanzare di 2,5 chilometri nella regione questa settimana.

Continua a leggere

Esteri

A Mariupol i bambini costretti a ringraziare i soldati russi

Pubblicato

del

Gli studenti di Mariupol, nella regione ucraina di Donetsk (est), sono costretti a scrivere “lettere di gratitudine” ai soldati russi: lo riporta Ukrinform, che cita il Comune della città occupata. “Le scuole nella Mariupol occupata stanno costringendo i bambini a scrivere lettere di gratitudine ai soldati russi – si legge in un comunicato stampa del Comune -. Gli studenti devono ringraziare gli occupanti per la ‘liberazione’ della loro città”. L’ultima serie di lettere è stata scritta in vista del 23 febbraio, quando i russi celebrano la Giornata del Difensore della Patria. Tuttavia, il Consiglio comunale di Mariupol ha sottolineato che gli stessi “difensori” hanno distrutto la città e ucciso gli amici e i parenti dei bambini delle scuole di Mariupol. Gli ufficiali notano che queste campagne mirano a manipolare ideologicamente i bambini, che oggi rappresentano uno dei principali obiettivi della prpoaganda russa. “Organizzazioni pseudo-patriottiche, ‘lezioni di patriottismo’, addestramento militare nelle scuole, glorificazione dei militanti russi e degli invasori: questi sono solo alcuni dei modi in cui le forze russe stanno cercando di cancellare l’identità ucraina, di militarizzare le giovani menti e di instillare l’odio verso tutto ciò che è ucraino”, afferma il Consiglio comunale di Mariupol.

 

Continua a leggere

Esteri

Giuristi: indagare Cpi si può ma lo ha fatto Mosca

Pubblicato

del

Indagare i funzionari della Corte penale internazionale (foto Imagoeconomica in evidenza) è possibile, ma il precedente è scomodo: porta dritto a Mosca, dopo il mandato d’arresto per crimini di guerra spiccato contro Vladimir Putin. Le sanzioni annunciate da Donald Trump contro la Cpi e lo scontro tra il governo italiano e la stessa Corte sul caso Almasri hanno lasciato frastornati gli esperti di diritto umanitario internazionale, divisi tra chi preferisce restare in silenzio e chi cerca di analizzare gli sviluppi – distinti, ma intersecati tra loro – da un punto di vista legale.

Non senza un certo rammarico nell’osservare che è stata proprio l’Italia nel 1998 a essere la culla della Corte con lo Statuo di Roma. Il caso russo – con il procuratore della Cpi Karim Khan (nella foto Imagoeconomico sotto), la presidente Tomoko Akane e il giudice italiano Rosario Salvatore Aitala finiti sotto accusa – “non è certo un precedente che fa onore all’Italia”, è la prima riflessione di Gabriele Della Morte, professore ordinario di diritto internazionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano. Senza sconfinare nel dibattito politico, il giurista evidenzia a più riprese che il mancato rispetto del mandato d’arresto della Cpi per il generale libico Nijeem Osama Almasri, rappresenta “una chiara violazione di una norma di diritto internazionale e di un obbligo di cooperazione con la Corte”, sancito proprio nello Statuto.

KARIM AHMAD KHAN. PROCURATORE CAPO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

“Forse dovremmo cambiare il nome al trattato, ma c’è una norma che prevede un obbligo di cooperazione”. E ora l’Italia potrebbe trovarsi di fronte a “una procedura particolare”, in cui la Cpi “avrà autonomia, dopo un’interlocuzione con il governo, nel decidere il da farsi” e scegliere “se deferire la mancata attuazione degli obblighi all’Assemblea degli Stati o portarla davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, che sulla Libia è responsabile. Che la questione possa arrivare fino al Palazzo di Vetro è un’ipotesi condivisa anche da No Peace Without Justice e da diversi giuristi dal profilo internazionale, alcuni anche profondamente legati alla Corte dell’Aja. Seppur la denuncia depositata da un cittadino sudanese contro Meloni, Nordio e Piantedosi non sia sufficiente da sola, nelle descrizioni dei più, ad aprire un’indagine sulla violazione dell’articolo 70 dello Statuto, resta il principio cardine che invece nessuno mette in discussione: “Ogni Paese membro ha l’obbligo di eseguire i mandati di arresto della Cpi”.

“Se uno Stato ha bisogno di documenti tradotti, può richiederlo ai sensi dell’articolo 87(2) dello Statuto al momento dell’adesione”, sottolinea Alison Smith, board member e legal counsel di Npwj, soffermandosi poi sul nodo più ampio: un sistema giudiziario internazionale “sempre più sotto attacco, sia dall’interno che dall’esterno”. “Sempre più Stati membri mettono in discussione l’obbligo di arrestare e trasferire all’Aja latitanti internazionali e l’Italia – osserva Smith -, in quanto membro fondatore e culla dello Statuto, dovrebbe avere un ruolo di spicco nella difesa dei valori cardine”.

Un ruolo ancora più cruciale oggi, con Donald Trump che soffia sul fuoco e alimenta “un clima ostile”. A rischio, è la constatazione della consulente legale, “c’è il lavoro della Corte proprio mentre è impegnata in indagini e processi in tutto il mondo”, dal Darfur all’Afghanistan. Senza dimenticare “tutti quei casi in cui la Cpi rappresenta l’unica speranza di giustizia e risarcimento per le vittime”.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto