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Barnier respinge l’ultimatum, Le Pen pronta a sfiducia

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A tre giorni dalla scadenza dell’ultimatum di Marine Le Pen al premier Michel Barnier, “il ricatto” come lo definisce oggi Le Monde nel suo editoriale, la tensione politica in Francia è alle stelle. Oggi il capo di quello che potrebbe diventare il governo dalla vita più breve nella Quinta repubblica (è stato nominato appena 84 giorni fa) ha provato ad abbassare i toni e a cercare compromessi, come faceva abilmente ai tempi in cui era il Monsieur Brexit di Bruxelles. Ma la pattuglia dell’esecutivo, stretta sul centrodestra con una maggioranza di pochi seggi, è stritolata nella morsa dell’estrema destra e della gauche: Le Pen che detta “linee rosse” da non superare e la gauche che grida alla “vergogna” se quelle linee non vengono oltrepassate per non urtare l’estrema destra.

Le due opposizioni, apparentemente inconciliabili, troverebbero un terreno comune soltanto nel sommare i loro voti per mandare a casa Barnier e il suo governo. A dimostrazione di una situazione fluida a 360 gradi, dove tutto diventa possibile e i mercati tremano, i mélenchoniani si sono anche pubblicamente informati, presso il ministro dell’Interno, Bruno Retailleau, sulle procedure da seguire nel caso di dimissioni del presidente della Repubblica. Un’eventualità inedita ma che ormai nessun può escludere. A gettare ancora più benzina sul fuoco, l’assalto fallito della sinistra all’odiata riforma delle pensioni con la quale Macron, nel 2023, ha portato l’età minima da 62 a 64 anni. A mezzanotte scadeva il tempo necessario per votare, ma il muro di emendamenti presentati all’Assemblée dai deputati che sostengono il governo e sono ormai denominati comunemente “socle commun”, base comune, ha retto all’assalto. Di notte, i deputati hanno alzato la voce e le mani, quasi una rissa in aula fra i deputati de La France Insoumise (LFI) e la maggioranza, accusata di ostruzionismo.

“Non sono nello stato d’animo da ultimatum nei confronti delle forze politiche in Parlamento – ha detto ostentando calma il premier – sono in uno stato d’animo di rispetto e dialogo. L’ultimatum che sento oggi è innanzitutto quello dei lavoratori che mi dicono di ‘tenere duro’. Abbiamo bisogno di stabilità e visibilità per poter investire”. Dopo aver fatto un passo indietro sulle pensioni e sugli oneri a carico degli imprenditori, il governo ha fatto dietrofront ieri anche sull’aumento delle bollette dell’elettricità per andare incontro alle richieste di Le Pen. Ma la leader del Rassemblement National (RN) non sembra orientata a rinunciare a sfiduciare il governo lunedì, rimproverandogli fra l’altro di aver annunciato concessione “non finanziati da tagli strutturali” e – così facendo – “precipitare la crisi finanziaria”. “Indebolire le imprese, rifiutare qualsiasi economia strutturale sul funzionamento dello Stato, punire tutti i francesi è la strada maestra verso il collasso”, ha ammonito Le Pen.

Barnier, con la rinuncia ad aumentare le tariffe dell’elettricità, ha di fatto rinunciato a 3 miliardi di euro in più nella manovra di bilancio. E tenta di ammorbidire l’ultimatum della Le Pen tagliando la copertura medica agli immigrati irregolari e annunciando per la primavera un progetto di legge destinato a introdurre la proporzionale nelle elezioni legislative. Tutti “regali” a Le Pen – accusa la gauche – ma dai quali il premier non trae alcun vantaggio per ora. Anche perché la leader del RN è irritata dal non essere mai nominata come colei che è all’origine delle richieste che hanno portato alle concessioni. “Non è un negoziato ma una forma di ricatto” quella di Le Pen – scrive Le Monde nell’editoriale – sottolineando che l’estrema destra “sfrutta il vicolo cieco in cui si trova Michel Barnier: quasi 10 miliardi di euro sono già stati concessi durante la discussione sulla manovra di bilancio, mentre la Francia ha necessità di riportare il suo deficit pubblico dal 6 al 5% del Pil nel 2025”.

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Siria, decine di esecuzioni sommarie di fedeli di Assad

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E’ l’ora della resa dei conti in Siria. Il regime di Assad si è dissolto ma la guerra civile continua più violenta che mai, con la furia che si è scatenata contro gli aguzzini del deposto rais. Li sono andati a prendere nelle loro case, tirati giù dai nascondigli improvvisati. Trascinati in strada, a Latakia, porto nord-occidentale siriano per decenni descritto come la roccaforte dei clan alawiti associati al potere degli Assad. Membri di quelle che fino a pochi giorni fa erano le temibili mukhabarat, i servizi di controllo e repressione governativi, sono stati giustiziati con colpi di pistola alla tempia o raffiche di mitra su tutto il corpo.

Sorte analoga ma più cruenta è toccata ad altri esponenti degli apparati di sicurezza del regime: uccisi e i loro cadaveri trascinati a lungo per le strade di Idlib, roccaforte dei jihadisti ora al governo a Damasco, mentre la folla inferocita li prendeva a calci. Sono state decine le esecuzioni sommarie condotte oggi in varie regioni della Siria, in particolare nelle zone di Idlib, Latakia, Hama, Homs e Damasco. Una violenza che viene da lontano e che sta riemergendo con tutti i suoi veleni in queste frenetiche ore di vendetta, seguite all’euforia della “liberazione” delle ultime 48 ore.

Almeno 40 cadaveri accatastati con evidenti segni di tortura e con fresche tracce di sangue sono stati rinvenuti a Damasco nell’ospedale militare di Harasta. “Ho aperto la porta dell’obitorio con le mie mani ed è stato uno spettacolo orribile: una quarantina di corpi erano ammucchiati, con segni di terribili torture”, ha raccontato uno dei primi miliziani di Hayat Tahrir ash Sham giunto nel tristemente noto ospedale-mattatoio di Harasta. E’ anche il giorno in cui continuano a riemergere testimonianze scioccanti delle sevizie compiute per decenni dagli aguzzini del regime nei confronti dei detenuti politici nella prigione di Saydnaya.

Nel carcere-inferno è stata trovata una delle sale di tortura: una serie di corde da impiccagione rosse di sangue rappreso, una pressa meccanica per “schiacciare i corpi” senza vita, che venivano poi spostati nella “sala dell’acido e del sale”, dove “venivano sciolti”. Sull’onda di una rabbia antica e incistata nelle pieghe di una società violentata da troppo tempo, il leader dei miliziani jihadisti Ahmad Sharaa (Jolani) in mattinata aveva annunciato l’intenzione di pubblicare una lista dei “nomi degli ufficiali più anziani coinvolti nella tortura del popolo siriano”.

“Offriremo ricompense a chiunque fornisca informazioni su alti ufficiali dell’esercito e della sicurezza coinvolti in crimini di guerra”, si leggeva nell’annuncio di Sharaa. Mentre il premier incaricato, Muhammad Bashir, ha promesso che il suo nuovo governo “scioglierà i servizi di sicurezza” del dissolto regime. Ma se gli ufficiali più anziani delle mukhabarat sono quelli che hanno maggiori risorse per fuggire all’estero o per nascondersi meglio, la furia si è abbattuta sui quadri medio bassi del sistema di repressione. “Lui è complice dei massacratori di Tadamon”, afferma un miliziano in uno dei video  indicando un presunto militare governativo, fermato dagli insorti. Il quartiere damasceno di Tadamon aveva visto nell’aprile 2013 l’uccisione di 41 civili da parte di soldati di Assad.

Come era emerso allora da una serie di video, confermati dagli inquirenti internazionali, le vittime erano state invitate a correre verso una fossa e in corsa venivano falcidiate da raffiche di mitra, cadendo morti nella fossa. In un altro filmato, girato nella località di Rabia, a ovest di Hama, due uomini, accusati di aver commesso crimini “contro i siriani”, sono circondati da uomini armati e in divisa. Urlano addosso ai due l’accusa di essere “maiali alawiti”. Seguono gli spari. Altre raffiche di fucili automatiche sono esplosi insistenti contro un camion aperto sul retro con a bordo miliziani filo-curdi catturati sul fronte orientale di Dayr az Zor.

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Corea Sud, arrestati capi della polizia nazionale e di Seul

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Il capo della polizia nazionale della Corea del Sud e quello di Seul sono arrestati per il loro ruolo nell’applicazione del decreto di breve durata sulla legge marziale del presidente Yoon Suk-yeol del 3 dicembre, dichiarata in serata e ritirata sei ore dopo per la bocciatura decisa dal Parlamento. E’ quanto riportano i media locali, ricordando che lo sviluppo è maturato a sole poche ore dalla presentazione della nuova mozione di impeachment contro Yoon da parte delle opposizioni guidate dal partito Democratico che dovrebbe essere votata sabato dall’Assemblea nazionale. In precedenza, l’ex ministro della Difesa e strettissimo collaboratore di Yoon, Kim Yong Hyun, è stato arrestato formalmente dopo che un tribunale di Seul ha approvato la misura cautelare nei suoi confronti per le accuse sul ruolo chiave ricoperto nell’imposizione della legge marziale e per abuso di potere. Kim è la prima figura di alto livello arrestata nella vicenda.

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Netanyahu alla sbarra, testimonianza fiume in tribunale

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Lo Stato di Israele contro Benyamin Netanyahu: per la prima volta un premier in carica si è seduto martedì al banco degli imputati per testimoniare in un processo, con numerosi capi d’imputazione, e rispondere ad accuse gravi che vanno dalla frode alla corruzione. Entrato alle dieci del mattino in una gremita e superprotetta aula del tribunale distrettuale di Tel Aviv, il primo ministro ha parlato per cinque ore difilato. Secondo round mercoledì dal primo pomeriggio fino a sera, e così via per tre giorni a settimana almeno per i prossimi 15 giorni. Come hanno stabilito i giudici respingendo tutti i ricorsi per rinviare (l’ultimo presentato da 12 ministri domenica) in cui si chiedeva di tener conto del delicato momento politico con la crisi in Siria e la guerra a Gaza in corso, che già gli è valsa una lunga dilazione.

Ad accogliere Netanyahu in aula, una folla di ministri e politici a sostegno. Presente anche Avner Netanyahu, il figlio più giovane del primo ministro, mentre la moglie Sara e il maggiore Yair sono a Miami. Fuori, davanti al tribunale, manifestanti divisi tra pro e contro: da una parte i familiari degli ostaggi con le foto dei loro cari ancora prigionieri a Gaza, dall’altra i pro-premier. Polizia a cavallo e sicurezza dappertutto.

Completo blu, spilletta degli ostaggi su un revers e bandierina israeliana sull’altro, parlando con la sua voce da oratore il primo ministro ha tentato di minimizzare le pesanti accuse ricordando a tutti che Israele sta affrontando problemi molto più grandi e ha già cambiato il volto del Medio Oriente: “Ora è la politica che conta, non la copertura mediatica positiva (per la quale è accusato di aver scambiato favori)”, ha detto perentorio.

Respingendo con veemenza l’immagine di uomo potente dedito a godersi i lussi, e descrivendosi come uno spartano servitore dello Stato, dedito alla lettura di libri di storia e biografie, uno che lavora 24 ore su 24, rinunciando al tempo con la sua famiglia: “Se ogni tanto fumo un sigaro, non ho tempo di finirlo. E per quanto riguarda lo champagne, non sopporto quella roba”, ha ironizzato riferendosi al capo d’imputazione secondo cui avrebbe ricevuto sigari e champagne dal magnate di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario James Packer.

Nel più grave dei tre casi a suo carico, il primo ministro è accusato di corruzione, frode e abuso di fiducia perché avrebbe firmato un provvedimento favorevole al magnate dei media Shaul Elovitch, azionista di controllo di Bezeq, la più grande compagnia di telecomunicazioni israeliana, in cambio di una copertura positiva su Walla News, sito web di proprietà di Elovitch nel 2012. Secondo i pubblici ministeri, l’accordo sarebbe stato siglato durante una cena di 12 anni fa in cui Netanyahu e sua moglie Sara lo hanno ospitato. “Non c’è stato alcun accordo, niente di niente”, si è difeso Netanyahu, “con Elovitch e sua moglie Iris si è instaurato un legame, ma non la relazione stretta che è stata descritta.

All’epoca Walla si mostrò straordinariamente ostile. C’è un motivo per cui è stato chiamato ‘Walla Akbar'”, gioco di parole sulla frase in arabo Allahu akbar (Dio è il più grande). Poi ha voluto chiarire sulla moglie Sara (la quale, si racconta nei salotti di Tel Aviv, avrebbe un documento segreto che metterebbe nei guai Bibi se la tradisse): “Lei non interferisce nella politica né nei colloqui”. Lasciato il tribunale, Netanyahu ha ripreso le funzioni di capo del governo rilasciando dichiarazioni di fuoco e avvertimenti al nuovo regime siriano.

Nessuna parola invece sulle trattative in corso per liberare gli ostaggi, che i Paesi mediatori così come funzionari israeliani di alto livello danno a un buon punto, tanto da indicare una data per il rilascio: tra un mese (prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, insomma). Anche un’importante fonte egiziana ha riferito a Ynet che l’annuncio di un’intesa che porterà ad un cessate il fuoco a Gaza e al rilascio degli ostaggi è “molto vicina”.

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