È un momento florido per artisti e operatori culturali napoletani che proprio in questi giorni espongono i propri progetti in interessanti mostre in giro per l’Italia e all’estero. Pier Paolo Patti ha presentato lo scorso 23 novembre la sua mostra personale WOR(L)DLESS all’Interzone Galleria di Roma. L’esposizione ruota attorno al tema dei conflitti sociali e bellici, con un focus specifico sui paesi del Medio Oriente. L’indagine dell’artista si concentra sul video, uno dei veicoli più utilizzati dai media internazionali. Patti recupera documenti video dal web, che scompone in una sequenza di fotogrammi, poi stampati con processo fotografico. Il tempo, tratto distintivo del mezzo, viene così annullato. Il risultato è un cortocircuito che dilata la visione all’infinito.
Pierpaolo Patti
Pierpaolo Patti
Pierpaolo Patti
“Il titolo della mostra – spiega Patti – è un gioco di parole costruito sull’assenza (less). Senza mondo e senza parola vuol dire tutto e niente, è un auspicio? È un dato di fatto? Parole complementari che ancora una volta hanno a che fare con la propria idea di mondo, su come si vuole raccontare, su come vogliamo tramandarlo. Senza la parola non c’è la storia del mondo e viceversa, e spesso i conflitti bellici ci suggeriscono un futuro senza né l’uno né l’altra”.
Chiara Di Domenico
Chiara Di Domenico
Chiara Di Domenico
Suggestivo e degno di nota è anche “Ciò che resta di un pioppo”, dell’artista Chiara Di Domenico, in questo momento in mostra presso il Centro della Memoria alla Médiathèque Albert-Camus di Innsoudun in Francia. L’artista mette in luce la foresta ricorrendo a diversi medium espressivi: disegno, installazione e fotografia. Di Domenico lavora in situ – in diverse foreste francesi -, esplora la foresta e i suoi processi di trasformazione, per comprenderla in quanto realtà indispensabile ed ecosistema unico diventato sempre più raro e prezioso. “Questo progetto – spiega Di Domenico – risponde all’esigenza di rappresentare frammenti di realtà per perpetuarne la memoria in cui momento in cui la foresta sta subendo trasformazioni disastrose e irreversibili”.
diversamente fragile, opera di Francesca Rao. Specifiche dell’opera: gesso e tecnica di stampa fotografica sperimentale su vetro. Anno di realizzazione 2021
diversamente fragile, opera di Francesca Rao. Specifiche dell’opera: gesso e tecnica di stampa fotografica sperimentale su vetro. Anno di realizzazione 2021
dettaglio, opera diversamente fragile
dettaglio, opera diversamente fragile
L’artista napoletana Francesca Rao esporrà due opere del progetto “Diversamente fragile” il prossimo 11 dicembre alla galleria d’arte YAG/garage di Pescara, nell’ambito di una mostra collettiva. La selezione delle opere è avvenuta tramite il progetto YAG/garage Italia. Il progetto si pone obiettivo di individuare “scuole territoriali” in grado di inquadrare stilisticamente e artisticamente il lavoro di giovani autori. Il suo lavoro di monitoraggio del territorio parte da Campania e Lombardia. Rao si è classificata al quarto posto e sarà dunque fra i dieci artisti che rappresenteranno la Regione Campania. Le opere in gesso prevedono una tecnica di stampa fotografica sperimentale su vetro. Ad aggiudicarsi il primo post del contest per la Campania è stata invece Annamaria Natale. I delicati acquerelli dell’artista sono parte della serie “Finché il mare sommerge”. In essi la linea dell’orizzonte segna una costante, come l’ago di una bussola, in grado di evitare che lo spazio collassi nel gorgo indistinto del reale. Al di sopra della linea dell’orizzonte, in un immenso stagno primordiale dalle onde piatte, un arcipelago sospeso di rocce sulfuree rovescia la propria ombra sulla superficie dell’acqua, e si rispecchia.
In ambito fotografico, si segnala la mostra a Saluzzo “Racconti d’Afghanistan” di Mario Laporta, fotogiornalista napoletano, che negli ultimi trent’anni ha raccontato con i suoi scatti i principali eventi occorsi sul suolo nazionale e internazionale. Il Comune di Saluzzo inaugurerà la mostra il 25 novembre alle ore 18, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, nel “Quartiere” di piazza Montebello, all’ex caserma Musso. La mostra si inserisce nel quadro degli eventi di presentazione della candidatura a Capitale Italiana della Cultura 2024 di Saluzzo e le Terre del Monviso.
Le immagini di Laporta raccontano la vita di tutti i giorni di un popolo alla costante ricerca della normalità e della libertà, con un focus particolare sull’universo femminile e sulle discriminazioni che le donne afghane sono costrette a subire. Da un’idea dell’Istituto Garuzzo per le Arti Visive “nasce così un racconto per immagini di un Paese alla ricerca della pace perenne, che trova sul suo cammino solo guerre, conflitti e diseguaglianze”, spiega la presidente Rosalba Garuzzo.
Annamaria Natale
Annamaria Natale
Le fotografie di Laporta, scattate in Afghanistan durante la seconda ondata antitalebana nel 2002, acquisiscono linfa nuova alla luce della recente presa del potere da parte dei talebani, che ha nuovamente compromesso i diritti delle donne e ha ristretto il campo delle libertà democratiche. “Queste foto – spiega Laporta – sono un augurio affinché gli afghani possano realmente, e da soli, liberarsi di un regime che vorrebbe riportarli in un passato che la stessa quotidianità popolare aveva definitivamente sepolto”. La mostra sarà visitabile venerdì 26 novembre dalle 14:30 alle 18, e da sabato 27 novembre a domenica 23 gennaio, tutti i sabato e domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 14:30 alle 18.
L’Istituto Garuzzo è altresì protagonista della mostra “La Via della Seta. Arte e artisti contemporanei dall’Italia”, realizzata con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, con le Ambasciate e gli Istituti Italiani di Cultura nel mondo e col patrocinio del Ministero della Cultura. La mostra, a cura di Angela Tecce, che vede coinvolti 38 artisti italiani, fra grandi maestri e giovani talenti, ripercorre idealmente e geograficamente l’antica Via della Seta, da Kiev in Ucraina, al China World Art Museum di Pechino e allo Xi’an Art Museum, dove nel 2022 concluderà il suo viaggio, rientrando in patria dopo aver percorso in linea d’aria oltre 30mila chilometri.
Delle 38 opere che compongono la mostra, 8 provengono direttamente dalla Collezione Farnesina. Qui Napoli è ben rappresentata, con le opere degli artisti Domenico Antonio Mancini, Pino Valente, Diego Cibelli, Eugenio Giliberti, Umberto Manzo, la scultrice Marisa Albanese e i fotografi Francesco e Mimmo Jodice. Questa carovana contemporanea toccherà Kiev, Ankara, Tblisi e Tashkent. “La Via della Seta – racconta Lorenzo Angeloni, Direttore Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Esteri – offre un sintetico panorama dell’arte contemporanea italiana, dalla fine degli anni Sessanta ai giorni nostri e si propone di valorizzarne la straordinaria vitalità e, al tempo stesso, raccontarne la capacità di interagire con realtà e mondi lontani per divenire naturale strumento di dialogo”.
Adelaide Di Nunzio
Adelaide Di Nunzio
Adelaide Di Nunzio
Adelaide Di Nunzio
Abituarsi alla bruttezza può essere sinonimo di abitudine all’illegalità? La mostra fotografica “Architetture Criminali” di Adelaide Di Nunzio – visitabile alla galleria Febo & Dafne di Torino dal 6 novembre 2021 all’8 gennaio 2022 – è un invito alla riflessione su un importante tema antropologico e sociale. La ricerca, a metà fra il reportage e la fotografia d’arte, ha richiesto ben dieci anni di lavoro, dal 2010 al 2020. Una serie di stampe fotografiche ed un libro raccontano il degrado architettonico di una parte dell’Italia meridionale, che non rappresenta semplicemente una bruttura estetica, ma è piuttosto testimonianza degli effetti dell’illegalità sulla vita delle persone, sul tessuto urbano, sul paesaggio e sulla società.
“L’occhio umano – spiega Di Nunzio, fotografa partenopea che lavora fra Napoli e Colonia, a suo agio tanto nel campo della fotografia artistica che in quello del fotoreportage – si abitua all’orrore del degrado e della fatiscenza. Lo sguardo, al primo impatto, inorridisce alla vista dell’edificio in disuso, del non finito abusivo o abbandonato, col tempo questo diventerà invisibile. Ho voluto fotografare questi scheletri del degrado urbanistico come se fossero dei monumenti magnifici, al pari di altre attrazioni turistiche per la quali la nostra Italia è così famosa”.
Intanto l’isola di Procida ha reso noto il programma ufficiale di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. Dato il momento di grande fermento degli operatori culturali napoletani, ci si poteva forse aspettare una presenza più nutrita di artisti della nostra città. Spicca comunque il nome del napoletano Mimmo Jodice, grande fotografo della contemporaneità, autore del progetto Abitare metafisico (da ottobre a dicembre). Le sue opere – in un percorso diffuso tra le architetture dell’isola – racconteranno l’identità di Procida, indagata dal maestro in uno straordinario percorso pluriennale.
Antonio Biasucci, altro importante interprete della fotografia contemporanea, dà vita alla mostra Una Sola Moltitudine (giugno-settembre), con la quale racconterà la condizione di vita dei detenuti dell’ex carcere di Palazzo d’Avalos, attraverso suppellettili e indumenti abbandonati. Gli scatti subacquei di Pasquale Vassallo e Guido Villani rientrano invece nell’ambito della mostra fotografica Watersurface (agosto-dicembre), dedicata al mare del golfo di Napoli, alla sua tutela e al patrimonio naturale e culturale che custodisce.
La rassegna Il Vento del Cinema (2-5 giugno), ideata da Enrico Ghezzi, affronterà il tema degli immaginari futuri. Fra i nomi di primo piano protagonisti della rassegna, anche quello di Mario Martone. Con il Coro della Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli, diretto da José Luis Basso, i porticcioli di Marina Corricella e Chiaiolella ospiteranno Oper(A)mare (3 e 25 giugno), con la rappresentazione di due opere liriche in forma di concerto. Con Ritual Project, saranno rigenerati i suoni originali delle celebrazioni rituali dell’isola, anche grazie alla visione e al talento di Pier Paolo Polcari degli Almamegretta.
Scoperta eccezionale a Giugliano: trovata necropoli romana, tra intonaci colorati, mausolei e l’epitaffio di un gladiatore
Nel cuore dei Campi Flegrei, a Liternum, una nuova campagna di scavi svela tesori nascosti: straordinaria testimonianza della vita e della morte nell’antica colonia romana.
Non solo la celebre Tomba del Cerbero. A Giugliano in Campania, nel cuore dell’antica Liternum, la storia riemerge ancora una volta con forza, bellezza e un senso profondo di meraviglia. In un’area archeologica già sottoposta a vincolo diretto dal Ministero della Cultura, la Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Napoli ha annunciato una nuova, eccezionale scoperta: una necropoli romana estesa per oltre 150 metri quadrati, che promette di riscrivere la conoscenza del territorio e delle sue pratiche funerarie.
Un cantiere di storia, bellezza e memoria
Sotto la direzione scientifica della dott.ssa Simona Formola, funzionario archeologo responsabile del territorio, gli archeologi hanno portato alla luce una straordinaria varietà di strutture e reperti: due recinti funerari con intonaci bianchi e rossi ancora ben conservati, un profondo pozzo cultuale, un mausoleo in opera reticolata, e oltre venti sepolture disposte con grande perizia e attenzione rituale.
Le tombe — a cappuccina, ad enchystrismòs e a cassa di tegole — raccontano una continuità di frequentazione del sito dalla fine del I secolo a.C. fino al III secolo d.C., segno tangibile della ricchezza sociale e culturale di questa zona del mondo romano, che ancora oggi continua a restituire tesori.
L’epitaffio di un gladiatore: un frammento toccante di umanità
Tra i ritrovamenti più affascinanti, alcune iscrizioni funerarie in marmo, di cui una, in particolare, cattura l’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica: l’epitaffio di un gladiatore. Una testimonianza rara e commovente che illumina il ruolo sociale, la memoria e la dignità riservata a questi combattenti, spesso percepiti come figure marginali, ma la cui presenza in necropoli tanto articolate rivela invece un riconoscimento pubblico e rituale.
I Campi Flegrei: una terra che non smette di sorprendere
Questa scoperta conferma ancora una volta quanto il territorio flegreo sia un autentico scrigno di tesori archeologici, spesso celati sotto strati di tempo e oblio, pronti a riaffiorare con la forza della bellezza e della verità storica.
Ogni tomba, ogni frammento, ogni intonaco conservato è un invito a guardare con occhi nuovi il paesaggio campano, in particolare quell’area di Giugliano che, da Liternum all’Anfiteatro romano, passando per il Foro e la necropoli, si mostra come un museo a cielo aperto ancora in parte da scoprire.
La promessa della Soprintendenza: tutelare e condividere
La Soprintendenza ABAP ha ribadito il proprio impegno nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, affinché queste straordinarie scoperte possano essere conosciute, studiate e raccontate, non solo alla comunità scientifica ma anche ai cittadini e alle nuove generazioni.
In un territorio che continua a stupire, la storia non smette mai di parlare. Basta saper ascoltare. E, nel caso di Giugliano, scavare con cura.
Padre Paolo Benanti, presidente della Commissione vaticana sull’intelligenza artificiale, ha affrontato con Walter Veltroni, in una lunga intervista pubblicata sul Corriere della Sera, le sfide poste dall’avvento della società digitale e dalle nuove tecnologie.
Apocalittici o integrati?
Riprendendo la celebre domanda di Umberto Eco sulla televisione, Padre Benanti chiarisce: «La risposta cambia a seconda del momento storico. Nei primi anni Duemila la tecnologia sembrava alleata delle democrazie, come in piazza Tahrir. Oggi, invece, con gli eventi di Capitol Hill e l’intelligenza artificiale generativa che concentra il potere nei server di pochissime aziende, tutto è cambiato: il 70% dei dati è nelle mani di sole due compagnie di Seattle, il 100% in cinque compagnie al mondo. È un potere immenso».
La crisi della normatività
«Oggi bisogna ridare valore alle norme», sostiene Padre Benanti, ricordando come eventi storici e sociali abbiano minato il concetto stesso di regola: «Siamo passati da una società kantiana, basata sulla norma morale, al dubbio che la norma possa diventare tirannica. La pandemia ha esasperato questo aspetto, portando molti a vedere la regolamentazione come distruzione dell’autonomia individuale».
Il rischio di una “Repubblica tecnologica”
Secondo Benanti, la società digitale sta creando nuove forme di potere politico. Citando Peter Thiel e gli altri fondatori di PayPal, definisce la loro visione come un capitalismo basato sulla competizione estrema e sull’esclusione: «Il loro modello è tra estremo individualismo e governo delle élite, più efficiente della democrazia tradizionale. Un esempio è Alex Karp, CEO di Palantir, che parla apertamente di una “Repubblica tecnologica” guidata da una classe illuminata».
Intelligenza artificiale, democrazia e realtà
“Ogni cittadino dovrebbe sapere se un’immagine è reale o generata artificialmente”, sostiene Padre Benanti. Il concetto del “sintetico”, cioè la perfetta imitazione del naturale, rischia di compromettere la capacità di distinguere vero e falso, minacciando le fondamenta della democrazia. Citando Turing e Eco, sottolinea: “La democrazia vive solo se i cittadini possono formarsi opinioni su fatti reali”.
L’algoritmo non può rispondere a tutto
Benanti avverte: “L’algoritmo tratta tutto come un problema matematico, ma le questioni umane fondamentali riguardano il senso della vita. Ho chiesto a un’intelligenza artificiale medica come eliminare il cancro, e la risposta logica, drammatica, era eliminare chi ne è affetto. Le questioni etiche non possono ridursi a soluzioni matematiche”.
Tecnologia e libertà personale
Il religioso riflette poi sulla perdita del senso esistenziale delle parole e dei rapporti umani, ormai filtrati da algoritmi e dispositivi: “Oggi viviamo in un capitalismo della sorveglianza basato sull’economia dell’attenzione. Dobbiamo trovare il modo di rendere compatibili tecnologia e libertà, umano e artificiale”.
Il futuro è un equilibrio delicato
“È urgente un ‘brain helmet’, una protezione che aiuti a difendersi dal dominio delle piattaforme digitali”, conclude Benanti. “Serve un nuovo equilibrio, per non perdere la nostra umanità di fronte al potere smisurato della tecnologia”.
Un ammasso di gusci di ostrica sono accumulati nell’angolo di una stanza della casa del Tiaso, la lussuosa dimora di Pompei in cui sono venute ora alla luce le megalografie di baccanti e satiri che ornavano una sala per banchetti. La stanza dista pochi metri dalla meravigliosa sala affrescata dove si tenevano i grandiosi ricevimenti ispirati al culto dionisiaco. Tutto lascia pensare ai resti di un sontuoso pranzo in cui erano state offerte ai convitati portate del celeberrimo frutto di mare. E invece no. I resti delle conchiglie erano lì nella loro funzione di materiale edile; d’altra parte tutta quest’area della villa, nel momento in cui era stara sepolta dai detriti dell’eruzione vulcanica, era un cantiere avviato per restaurare la ricca dimora.
Dai gusci di queste conchiglie, triturate, i romani ricavavano infatti una finissima polvere, quasi trasparente, di carbonato di calcio, che veniva passato come ultimo strato sugli affreschi delle pareti. Il risultato era strabiliante ed è ancora perfettamente visibile. Questa polvere di carbonato a contatto con una sorgente luminosa iniziava infatti a luccicare. E tutt’ora lo fa, se gli si avvicina ad esempio la luce della torcia di un telefonino. Immaginate quindi questa stanza di accesso al tempietto che, nella penombra rischiarata da candelabri, lucerne e bracieri, brillava di puntini luminosi come fosse un cielo stellato. L’effetto doveva essere sbalorditivo.
D’altronde era la stanza di accesso ad un luogo spirituale, anche questo degnamente affrescato da scene delle quattro stagioni e allegorie dell’agricoltura e della pastorizia che spiccano da uno sfondo azzurro, o meglio in blu Egizio. Un altro materiale decorativo sfarzosissimo, ritrovato anche in altri ambienti della villa. Era un materiale costosissimo, tant’è che quando un proprietario chiamava il mastro pittore e gli chiedeva il costo delle operazioni per realizzare gli affreschi, questo lo avvisava che il prezzo avrebbe riguardato solo la manodopera e i colori base; per il blu egizio, ci sarebbe stato un costo a parte da pagare. A Pozzuoli c’era anche una fabbrica dove si produceva il blu egizio, l’unico pigmento preparato chimicamente ai tempi dei Romani. Era a base di rame e veniva cotto a temperature molto elevate all’interno di alcuni pozzi; la polvere che ne veniva estratta dopo la cottura cambiava colore, le particelle di rame surriscaldate diventavano blu.
“Questo fa capire – raccontano gli archeologi e i restauratori che hanno curato gli scavi – quanto facoltoso fosse il proprietario di questa enorme casa che poteva vantare un quartiere termale, una vera e propria spa privata. Noi adesso stiamo guardando solo la pars privata di una villa che aveva ambienti che si affacciavano su un portico, che a sua volta affacciavano su un enorme giardino che, in larghezza, era grande quanto tutto l’isolato”. Dell’enorme villa, restano infatti ancora inesplorati due terzi della proprietà, tra cui l’ingresso, il quartiere dell’atrio e gran parte del giardino colonnato.