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Ambiente, il ministro/generale Costa in una intervista parla di altri 9 miliardi di euro per un piano contro il dissesto idrogeologico

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A metà febbraio il governo presenterà un piano da 9 miliardi contro il dissesto idrogeologico. Ne parla il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, in un’intervista al Sole 24 Ore. Sono due gli assi portanti, spiega Costa: “Il primo conta su 2,6 miliardi, sui quali l’Ue ha concesso la flessibilità, che serviranno per la gestione delle emergenze, affidata al Dipartimento della Protezione civile” ed è “indispensabile in un Paese come l’Italia, che ha il 79% di fragilità idrogeologiche. Altri 6,59 miliardi, al ritmo di 900 milioni a triennio”, saranno gestiti dal suo ministero “per la messa in sicurezza”, per “interventi strutturali, su impulso dei presidenti delle Regioni in qualita’ di commissari straordinari per il dissesto. Con un obiettivo: ottenere quanti piu’ progetti cantierabili possibile”. I 6,59 miliardi, precisa il ministro, “sono l’unificazione organica” di “fondi prima disarticolati: quelli europei, quelli di Italia Sicura e quelli di bilancio del ministero. Oggi abbiamo un centro unico di gestione delle risorse”. Costa risponde poi a una domanda sulle Autonomie: spiega che ci sono difficoltà a trasferire le competenze dell’Ambiente, perchè il ministero ha “una competenza tecnicistica” che “si accompagna a decisioni di altri ministeri che producono gli atti finali”, “tra martedì e mercoledì consegneremo a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna una controproposta, con dei ‘si””.

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Zaia difende il matrimonio di Bezos a Venezia: “Striscioni contro? Una comunicazione sbagliata al mondo”

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Luca Zaia non ci sta. Le polemiche esplose attorno al matrimonio di Jeff Bezos a Venezia — tra striscioni di protesta con il nome sbarrato del fondatore di Amazon affissi sul campanile di San Giorgio e sul ponte di Rialto — vengono definite dal presidente della Regione Veneto “una comunicazione inaccettabile”. In un’intervista al Corriere della Sera, Zaia difende non solo l’evento, ma anche la vocazione storica e cosmopolita della Serenissima.

“Venezia non è mai stata il ‘vietato l’ingresso’”

Zaia respinge con fermezza l’idea che Venezia debba chiudersi ai grandi eventi o ai personaggi simbolo del capitalismo globale:
“La storia della Serenissima è fatta di apertura: abbiamo i fondaci dei tedeschi, dei turchi, il ghetto più antico del mondo. La nostra cucina è contaminata dalle spezie che arrivavano da ogni parte”, afferma il governatore.
Per lui, quegli striscioni rappresentano un messaggio globale fuorviante: “Non è solo l’opinione di una minoranza, ma l’immagine trasmessa da uno dei ponti più famosi del mondo”.

“Il turismo va regolato, non criminalizzato”

Zaia riconosce il problema del sovraffollamento turistico a Venezia, con picchi di 150 mila presenze giornaliere, ma sottolinea come le nuove tecnologie e i varchi limitati della città permettano di regolare i flussi, senza scadere in forme di protesta ideologica.
Il matrimonio di Bezos viene presentato come uno tra tanti eventi già ospitati in laguna, ricordando le nozze vip di Clooney, Salma Hayek, Elton John, fino all’ipotesi (provocatoria) di una presenza di Donald Trump.
Forse se Bezos non fosse vicino al presidente Usa, non sarebbe successo nulla”, è la sua stoccata polemica.

“Grazie ai ricchi, Venezia riceve fondi e attenzioni”

Zaia rivendica l’importanza economica del matrimonio in programma:
“Sono stati affittati cinque alberghi, trenta motoscafi, l’evento costerà tra i 20 e i 30 milioni di euro”, ricorda. E aggiunge: “Grazie a questi ‘ricconi’ siamo sostenuti da fondazioni estere che amano Venezia”.
Il governatore si dice preoccupato per il messaggio che arriva al mondo: “Che qualcuno sparerà ai turisti con pistole ad acqua? Che Venezia non è più ospitale?”.

“Rispetto per l’Anpi, ma gli americani nel ‘45 furono accolti a braccia aperte”

Zaia si mostra sorpreso anche dal coinvolgimento dell’Anpi nelle proteste, ma tiene a distinguere: “Ho massimo rispetto per la Resistenza e per la lotta al nazifascismo, che ci ha permesso di chiudere una delle pagine più nere della nostra storia”.
Poi conclude con una punta di ironia storica: “Chi è stato partigiano ha accolto a braccia aperte gli americani nel 1945”.

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Incontro sulla panchina, Meloni scruta le mosse di Trump

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Su una panchina di legno del Pomeroy Kananaskis Mountain Lodge, da soli, senza staff nelle vicinanze. Giorgia Meloni e Donald Trump si sono parlati prima della cena che ha sbloccato la dichiarazione del G7 sulla crisi tra Israele e Iran, e del ritorno anticipato del presidente americano a Washington. Non è stato l’unico incrocio tra i due a margine del summit, ma questo momento clou, alla fine di una giornata intensa, era atteso dalla premier per comprendere meglio la strategia del tycoon sul nuovo fronte di crisi in Medio Oriente, ma anche per affrontare una serie di altre questioni incalzanti, come Gaza, il braccio di ferro sui dazi fra Usa e Ue, e gli scenari della Nato. L’Ucraina è invece diventato l’indomani il tema principale della giornata conclusiva del summit, senza Trump ma con Volodymir Zelensky, che dopo la notte “tragica” vissuta da Kiev per gli attacchi russi ha ottenuto dagli alleati la conferma del sostegno, anche se sulle nuove sanzioni alla Russia gli europei ancora non mostrerebbero una linea comune.

Nell’album del G7 di Meloni c’è anche la foto dell’abbraccio alla figlia Ginevra con lei in Canada (“La mia forza più grande. Ovunque. Sempre”). Quelle politicamente più rilevanti sono quelle in cui è seduta accanto al presidente Usa, protesa in avanti verso l’interlocutore, i tacchi puntati sul pavimento. Del “bilaterale” reso noto da Palazzo Chigi, non sono arrivate comunicazioni dalla Casa Bianca. La premier ha ribadito l’importanza di un accordo commerciale transatlantico, e con cui ha discusso dei temi Nato, in vista del vertice della prossima settimana all’Aja. Incluso il percorso di aumento delle spese militari (Berlino e Londra sostengono la linea di spostare dal 2032 al 2035 il termine per il 3,5%). In un G7 dominato dalla crisi fra Teheran e Tel Aviv, la premier ha puntato la sua strategia sull’idea che un cessate il fuoco a Gaza possa portare alla de-escalation anche nel resto del Medio Oriente. Lo ha detto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei giorni scorsi. E lo ha ripetuto anche a Trump.

Ma sia l’uno sia l’altro sembrano avere come priorità l’Iran. La dichiarazione dei leader chiusa con notevoli sforzi diplomatici cita sì la Striscia, ma inquadra “la de-escalation delle ostilità in Medio Oriente, incluso un cessate il fuoco a Gaza”, come risultato di una “risoluzione della crisi israeliana”. In attesa di un commento pubblico, in queste 48 ore di trattative e incontri a Kananaskis, Meloni ha dovuto anche fare i conti con le varie prese di posizione di Trump su Vladimir Putin possibile mediatore con l’Iran. Roma è rimasta spiazzata, al netto delle considerazioni di Matteo Salvini. Il presidente russo “dovrebbe mediare per concludere l’invasione dell’Ucraina”, ha tagliato corto l’altro vicepremier, il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Putin ha altri piani come dimostra la notte vissuta da Kiev, con “attacchi a infrastrutture civili e case, una tragedia”, come ha detto Zelensky arrivando a Kananaskis. Ogni imbarazzo nel resort fra le Montagne Rocciose è stato evitato dalla partenza anticipata di Trump.

Il presidente ucraino ha ricevuto le condoglianze dei leader. Nella sua agenda un incontro informale con i leader G7 e la sessione di lavoro dedicata a “un’Ucraina forte e sovrana” aperta ai Paesi invitati, al termine della quale non si è concretizza l’ipotesi di una riunione ristretta tra il leader ucraino con Italia, Francia, Germania e Regno Unito. Mettere pressione a Mosca perché decida di sedersi al tavolo è la richiesta di Zelensky: “Noi siamo pronti per i negoziati di pace e un cessate il fuoco incondizionato, è molto importante, ma per questo abbiamo bisogno di pressione” sulla Russia. Fino a quel momento ha bisogno di aiuti militari. Il Canada, intanto, ha annunciato un nuovo pacchetto di forniture (droni inclusi) da 2 miliardi di dollari, e nuove sanzioni a individui e compagnie russe, anche per contrastare la flotta fantasma di Mosca.

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Braccio di ferro sul terzo mandato, 7 giorni per l’intesa

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Ancora sette giorni: dopo l’apertura di Fdi che ha preso in contropiede il resto della maggioranza, la Lega ha chiesto più tempo per capire se mettere davvero nero su bianco una (ennesima) proposta per allungare la permanenza in carica dei presidenti di Regione. Perché sul terzo mandato, e sulle conseguenti scelte dei nomi da mettere in pista per le regionali d’autunno, manca ancora l’intesa politica – Forza Italia si dice totalmente contraria. E potrà arrivare solo dopo che si saranno parlati i leader. Un vertice ci potrebbe essere già giovedì al rientro di Giorgia Meloni dal G7 in Canada, pronostica qualcuno, anche se c’è chi non esclude che si possa andare all’inizio della prossima settimana. A ridosso della nuova scadenza per depositare emendamenti a un ddl dedicato ai numeri dei consiglieri regionali che resterebbe, nonostante le proteste delle opposizioni, il veicolo più veloce per modificare i mandati dei governatori. I leghisti restano guardinghi. Nessuno sa davvero dire se il via libera a una discussione sia “vera” o solamente “tattica”. Nel frattempo in Veneto, dove tornerebbe in gioco Luca Zaia, la Liga scalpita.

E all’unanimità lunedì hanno deliberato di fare partire la macchina della campagna elettorale, in un direttivo cui sembrava dovesse partecipare lo stesso Zaia (che poi invece era impegnato altrove). Anche i meloniani veneti sono in attesa. Per mesi hanno rivendicato gli ottimi risultati del partito e la stessa Meloni a inizio gennaio, a dire il vero, aveva chiarito che nella scelta del prossimo candidato governatore Fdi andava tenuta nel dovuto conto e fermando tutti i tentativi di allungare i mandati. Oggi lo scenario è capovolto. L’idea di un terzo (che poi sarebbe il quarto) mandato del “Doge” non è più così indigesto anzi, sembra una soluzione ben gradita, che potrebbe garantire la pax interna evitando, al contempo, di dover appoggiare un nuovo nome leghista. “Meglio altri 5 anni Zaia che 10 anni un altro”, come ad esempio il vicesegretario Alberto Stefani che sarebbe in pole, fanno notare diversi meloniani. Certo, i tempi sono strettissimi e c’è da superare il niet azzurro. Antonio Tajani l’ha detto chiarissimo, la Lega “può presentare l’emendamento che vuole, Forza Italia non lo vota”. Punto.

Ma in molti sono convinti che il no del segretario di Fi sia negoziale, per cercare di ottenere qualche risultato dal braccio di ferro tra Fdi e Lega, che sia il taglio delle tasse o la blindatura di Flavio Tosi come prossimo candidato sindaco a Verona. In attesa che sia sciolto questo rebus Alberto Balboni, presidente meloniano della commissione Affari costituzionali del Senato, ha accordato una settimana di tempo in più per presentare gli emendamenti al ddl sui consiglieri regionali, su cui però c’era una intesa con le opposizioni tanto da essere in sede “redigente”, cioè con un iter accelerato. Le opposizioni sono già pronte a presentare “migliaia” di emendamenti se dovesse arrivare anche la proposta sul terzo mandato che non rientrava “affatto” negli accordi. Una mossa “inaccettabile” per il presidente dei senatori dem Francesco Boccia, una “forzatura di una maggioranza divisa”, attacca anche la vicecapogruppo M5S Alessandra Maiorino. Peraltro un terzo mandato, osserva Balboni, andrebbe temperato con dei “contrappesi” come “maggiori poteri delle assemblee oggi praticamente ostaggio dei governatori”. Senza considerare che a ruota, e già ha posto la questione ad esempio Noi Moderati, arriverebbe la richiesta di superare il limite al numero dei mandati anche per i sindaci delle grandi città. Mentre imperversa la battaglia verbale sulle regionali, la maggioranza si divide al Parlamento europeo sulla mozione contro gli abusi sessuali sui minori (Fi vota sì, Fdi e Lega si astengono perché si dà troppo spazio a teorie “gender”) e fa un pasticcio alla Camera a Roma dove, per un dichiarato errore, passa all’unanimità una mozione di Italia Viva a prima firma di Maria Elena Boschi sulle misure per attrarre i ricercatori su cui il governo aveva dato invece parere contrario.

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