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Allarme per il patrimonio dell’umanità di Aleppo

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“Situata all’incrocio di diverse rotte commerciali a partire dal II millennio a.C., Aleppo fu governata in successione dagli Ittiti, dagli Assiri, dagli Arabi, dai Mongoli, dai Mamelucchi e dagli Ottomani”. Così quattro millenni di storia dell’antica città siriana, di nuovo in questi giorni tristemente al centro delle cronache di guerra, vengono sintetizzati dall’Unesco, che nel 1986 l’ha inserita nella lista dei siti patrimonio dell’umanità.

Perché “la cittadella del XIII secolo, la Grande Moschea del XII secolo e varie madrase, palazzi, caravanserragli e hammam del XVII secolo fanno tutti parte del tessuto urbano coeso e unico della città, ora minacciato dalla sovrappopolazione” aggiunge l’Unesco. Ma oltre alla sovrappopolazione, per l’ennesima volta di nuovo anche dalla guerra, ora con le sue moderne armi e bombe. Bombe che già agli albori del conflitto civile siriano, nel 2013, le hanno inflitto danni irreparabili.

A cominciare dal minareto della Grande Moschea, raso al suolo. Era stato costruito tre anni prima che papa Urbano II incitasse nel 1095 i cristiani a compiere la Prima Crociata in Terrasanta. La moschea, che risale al 715 d.C., si trova al centro del dedalo degli antichi mercati coperti, anch’essi in parte distrutti nei combattimenti iniziati dall’estate 2012 e andati avanti ad intermittenza fino ad oggi, e ad ovest della cittadella medievale, luogo-simbolo della città, anch’essa pesantemente danneggiata dagli scontri tra le fazioni rivali.

La cittadella è un vero scrigno di storia. Il più antico ritrovamento avvenuto al suo interno è una coppia di leoni in basalto che ornavano un tempio ittita dedicato a Hadad, risalenti al X secolo a.C. Nel corso dei secoli in molti hanno cercato di conquistarla, anche se era considerata inespugnabile. A cominciare da Hulagu Khan, nipote di Gengis Khan, nel 1260. Venendo ai giorni nostri, tra il 2012 e il 2016, la cittadella ha subito gravi danni durante la battaglia di Aleppo, ma poi venne riaperta riaperta al pubblico nel 2017.

Ma non è finita qui, perché il 6 febbraio del 2023 i suoi antichi e fragili edifici e mura di cinta sono stati ampiamente danneggiati dal terremoto di magnitudo 7,8 che quel giorno ha colpito il nord della Siria e la Turchia. Per tutto questo, l’Unesco ha inserito i preziosi siti archeologici di Aleppo nell’elenco del patrimonio mondiale in pericolo, e probabilmente li considera anche tra quelli che oggi destano maggiore preoccupazione.

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I volenterosi da Starmer, ‘massima pressione su Putin’

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La ‘coalizione dei volenterosi’ annuncia il passaggio alla fase “operativa” del piano per le garanzie di sicurezza a Kiev, compresa la missione di peacekeeping da inviare in Ucraina se e quando cesseranno le ostilità con Mosca. E’ questo il messaggio che rimbalza, almeno a parole, dal vertice virtuale convocato dal premier britannico Keir Starmer con i leader di un gruppo di Paesi alleati dell’Occidente globale salito a quota 26, fra nazioni europee e non: messaggio che si affianca all’impegno rinnovato a rilanciare “la massima pressione collettiva”, economica in primis, sulla Russia di Vladimir Putin per spingere lo zar a smetterla con “i giochini” e “i rinvii” e accogliere la proposta di tregua dell’amministrazione Usa di Donald Trump già accettata da Volodymyr Zelensky; e che tuttavia lascia aperte ancora a molte incognite sulla stessa fattibilità di questa missione futura e su quali Paesi siano effettivamente inclini a esporsi ‘boots on the ground’; mentre Giorgia Meloni, presente alla call dopo qualche esitazione, chiarisce senza mezzi termini che l’Italia al momento si chiama fuori da qualunque invio di truppe.

“La mia sensazione è che (Putin) prima o poi dovrà sedersi al tavolo e impegnarsi in discussioni serie”, ha esordito Starmer, provando a dar corpo al tentativo di presentarsi come una sorta di Winston Churchill in tono minore di fronte ai leader – orfani dell’America dell’era Trump – di una ventina di Paesi europei, Ue e non Ue, della Turchia, dell’Australia, della Nuova Zelanda e del Canada del neo insediato primo ministro-banchiere Mark Carney. Oltre che ai vertici dell’Unione e della Nato. “Nell’ultima settimana molto è successo”, ha poi aggiunto, riferendosi all’esito dei colloqui americano-ucraini in Arabia Saudita, non senza rivendicare a Kiev il titolo di “partito della pace” per l’impegno già sottoscritto verso “un cessate il fuoco senza condizioni di 30 giorni”; e rinfacciare invece a Putin di perdere tempo a colpi di “si, ma…” rispetto a una soluzione che deve necessariamente passare l’interruzione dei “suoi barbarici attacchi all’Ucraina”: mentre “il mondo ha bisogno di azioni, non di parole vuote o di condizioni”.

Di qui l’impegno dei ‘volenterosi’ a riaffermare da un lato la volontà di continuare a sostenere Kiev affinché possa difendersi nell’immediato e dall’altro a consolidare il suo apparato militare in vista di una pace futura per “scoraggiare ulteriori aggressioni”; ma anche d’imporre di “nuove sanzioni” contro la Russia per “indebolire la macchina da guerra” di Mosca e costringere l’uomo del Cremlino a negoziare senza ulteriori rinvii. In prospettiva resta inoltre l’obiettivo di un “dispiegamento della coalizione” in Ucraina, “sul terreno e con aerei nei cieli, nell’eventualità di un accordo”, in modo da garantire “una pace sicura e duratura”.

Progetto a guida anglo-francese presentato da Starmer il 2 marzo al precedente summit della Lancaster House assieme a Emmanuel Macron e per approfondire il quale – fra una riunione e l’altra sull’asse Londra-Parigi – il prossimo appuntamento è fissato ora per giovedì 20: con la convocazione nella capitale britannica dei comandanti militari delle nazioni in prima linea, a cui spetterà delineare “progressi pratici” a livello di pianificazione “operativa”. Un’occasione destinata a limitare le presenze allo zoccolo duro dei Paesi pronti fin d’ora a mettere a disposizione truppe sulla carta (come Regno Unito, Francia, Turchia e forse il Canada). Paesi fra cui l’Italia non c’è, non prevedendo al momento di partecipare con “una forza militare nazionale sul terreno”, ha informato seccamente Meloni, tornando a invocare piuttosto la necessità di lavorare senza fughe in avanti sia con i partner europei sia con gli Stati Uniti per definire “garanzie di sicurezza credibili ed efficaci”.

Quelle garanzie che in termini militari Donald Trump per ora nega, in barba al fatto che anche Starmer le abbia più volte indicate come indispensabili da parte di Washington; tanto più che il Cremlino allo schieramento di un qualsiasi contingente euroccidentale in Ucraina ha già detto categoricamente no (a dispetto delle parole di Macron secondo cui Mosca in proposito non dovrebbe avere “voce in capitolo”). Mentre da Kiev, dopo l’intervento alla videocall con sir Keir, Zelensky insiste a negare che i soldati ucraini siano ormai circondati nel Kursk sotto la spinta dell’avanzata russa, ma ammette come Putin stia in effetti tirando la corda per “guadagnare (altro) terreno”. E intanto designa un team di negoziatori, guidato al di sopra del governo dal fedelissimo capo del suo staff, Andriy Yermak, per i colloqui di pace: da tenere se e quando gli alleati riusciranno a indurre lo zar a dire basta.

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I russi spingono nel Kursk, nuova battaglia di droni

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L’armata russa continua a guadagnare terreno nel Kursk e secondo Kiev la strategia di Mosca in questa zona del fronte mira a obiettivi più ambiziosi: sfondare verso il nord dell’Ucraina. “Vogliono migliorare le loro posizioni sul campo di battaglia prima di impegnarsi in un cessate il fuoco”, è la denuncia di Volodymyr Zelensky, in una fase in cui il conflitto si combatte principalmente dal cielo, con una pioggia incrociata di droni.

La regione russa di confine, teatro lo scorso agosto dell’offensiva a sorpresa degli ucraini, resta in cima alle priorità dello stato maggiore di Mosca, che vuole togliere al nemico una preziosa merce di scambio quando si andrà al tavolo delle trattative di pace.

Il ministero della Difesa ha diffuso le immagini di Sudzha, la città principale del Kursk occupata dalle forze ucraine per mesi, da poco tornata sotto il controllo russo, con grande soddisfazione del Cremlino. Inoltre, è stata rivendicata la riconquista di due villaggi limitrofi. Nell’ultima settimana ampie porzioni dell’oblast sono tornate in mano russa. La situazione per gli ucraini nel Kursk “è molto difficile”, ha ammesso lo stesso Zelensky, smentendo però che le sue truppe siano “circondate” (come invece aveva fatto intendere Donald Trump, fornendo una nuova sponda a Putin).

Lo stato maggiore di Kiev ha riferito che le unità di combattimento “continuano a trattenere i raggruppamenti russi e nordcoreani”, tenendoli così lontani da altre linee del fronte. Il problema è che i russi, così superiori in termini di uomini e mezzi, starebbero comunque continuando ad ammassare truppe lungo il confine nord-orientale dell’Ucraina.

Con l’obiettivo, ha avvertito Zelensky, di “attaccare la nostra regione di Sumy”: una parte di territorio finora relativamente risparmiato dall’invasione. Per questo motivo il leader ucraino, che si è nuovamente stretto agli alleati partecipando in video-conferenza al summit dei cosiddetti volenterosi promosso da Londra, si è detto pronto a “fornire ai partner tutte le informazioni reali sulla situazione al fronte” e dimostrare che “Mosca intende continuare a ignorare la diplomazia”. Ossia, continuare a porre ostacoli alla tregua di 30 giorni proposta da Washington e accolta da Kiev.

La pressione russa resta costante anche nel Donbass con le operazioni concentrate per conquistare Pokrovsk, località nei pressi di una autostrada collegata con il centro ben più strategico di Dnipro. La battaglia qui infuria da mesi, ma gli ucraini in questa fase assicurano che la situazione si è “stabilizzata”.

Ed in questo sostanziale stallo sul terreno, a ruggire sono soprattutto le forze aeree. Kiev ha riferito di aver dovuto fronteggiare 130 droni lanciati dai russi su tutta l’Ucraina. Sul fronte opposto, altrettanti sciami di velivoli senza pilota hanno preso di mira sei regioni russe. Nel Krasnodar sono stati inviati 200 vigili del fuoco per spegnere un incendio in un deposito di petrolio provocato dall’attacco ucraino.

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Un’altra bambina di otto anni violentata in Bangladesh

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Un’altra bambina di otto anni è stata violentata in Bangladesh, dopo quella morta pochi giorni fa a seguito di uno stupro e che aveva sollevato agguerrite proteste di piazza. Lo ha riferito il capo della polizia di Nilphamari Sadar, la città in cui si è verificato il fatto, all’agenzia nazionale Unb, che ha aggiunto di avere arrestato un vicino di casa. Come nel caso precedente, avvenuto a Magura, è stata la gente del posto a consegnare il sospettato alla polizia. La vittima della violenza è stata ricoverata nel locale ospedale per le cure. Abdur Rahim, medico del Nilphamari Modern Sadar Hospital, ha detto che la bambina è stata ricoverata nel reparto di ginecologia a tarda notte e che i controlli sono stati completati oggi. A quanto si è appreso, la bimba vive con lo zio materno e va regolarmente alla scuola locale. Il vicino, Abu Bakkar, l’avrebbe attirata a casa sua e violentata, minacciandola di ritorsioni se avesse raccontato quanto era successo. Quella notte, però, la bambina ha accusato forti dolori e ha raccontato alla nonna cosa era successo.

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