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Al Baghdadi ucciso dagli Usa grazie all’aiuto di Siria e Mosca

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C’è intesa tra Mosca e Ankara. A Sochi  il presdente russo, Vladimir Putin, e il collega turco, Recep Tayyip Erdogan, hanno sancito pochi giorni fa l’uscita di scena dal Nord-Est della Siria degli americani e dei curdi siriani delle milizie YPG. Questi ultimi costituiscono la stragrande maggioranza delle Forze Democratiche siriane Fds, decisive per decretare la fine di Abu Bakr Al Baghdadi. Meno di una settimana fa, l’ennesimo capitolo della guerra in Siria si concludeva con una vittoria della Russia e del regime di Damasco, che prendevano il controllo di un territorio fino a pochi giorni prima in mano a curdi e americani. Una sconfitta sul campo che ora il binomio marine-YPG ribalta con la vittoria di un’altra guerra: quella all’Isis. La morte di Al Baghdadi riporta in primo piano la ragion d’essere dell’alleanza tra curdi e americani, unitisi nella lotta al califfato e consolidatasi con le vittorie ottenute a Kobane, Tel Abyad, Mosul e Raqqa, ma soprattutto con la vittoria ottenuta oggi.

Erdogan

Da un lato Mosca-Damasco, dall’altro Washington-YPG, con Erdogan che continua a giocare su entrambi i tavoli e che secondo diversi sondaggi e’ in ripresa dopo che negli ultimi tempi il suo partito era crollato ai minimi storici. Il presidente turco ha chiuso e mai riaperto i canali con Damasco e ritiene YPG un’organizzazione terroristica tout court, tuttavia vanta recenti intese sia con il presidente americano Trump che con Putin. Con il primo Erdogan ha trovato l’intesa per una tregua che il ottobre ha posto fine all’offensiva militare turca in Siria. Con il secondo, cinque giorni dopo, e’ stato trovato un accordo sulla gestione della safe zone, che ha sostanzialmente posto le basi per il ritorno del presidente siriano Bashar al-Assad nella regione. L’ennesimo pezzo di Siria che Putin ha riportato nelle mani di Damasco. Se tra Putin ed Erdogan i rapporti sono idilliaci e le intese sulla Siria molteplici, ottime sono tornate anche le relazioni tra Erdogan e Trump. Appena un anno fa la lira turca era stata infatti messa in ginocchio da sanzioni americane peraltro poco piu’ che simboliche, ma l’intero sistema economico di Ankara e’ finito sull’orlo del collasso ogni volta che Trump tuonava via Twtter. Stessa cosa accaduta all’inizio dell’offensiva turca, quando le ripetute minacce della Casa Bianca di “distruggere l’economia turca” hanno fatto vacillare la lenta ripresa della moneta di Ankara.

L’accordo sulla tregua di 5 giorni per consentire il ritiro dei miliziani curdi ha riportato il sereno, l’abolizione delle sanzioni e il via libera di Trump a una safe zone senza YPG. La morte di Baghdadi e’ stata salutata con giubilo da Ankara, con Trump che non ha lesinato ringraziamenti alla Turchia, riconoscendone la collaborazione attiva. Segno, in vista della visita di Erdogan a Washington il 13 novembre, di un’intesa ritrovata anche perche’ Erdogan ha ottenuto quello che voleva, la sua safe zone contro YPG. Un progetto annunciato dal presidente turco piu’ di un anno fa e tenuto in naftalina in attesa del ritiro americano dal Nord della Siria. Erdogan e Trump hanno trovato il punto di intesa nella necessita’ di guadagnare consenso presso il proprio elettorato e quanto avvenuto dal ritiro americano dal nord est Siria a oggi, vale a dire negli ultimi 20 giorni, garantisce a entrambi una vittoria importante sul fronte interno. Erdogan ha eliminato la minaccia curda separatista che incombeva al confine, argomento sempre di grande presa in Turchia, garantendosi un grande ritorno in termine di immagine e di voti. Ossigeno puro per il partito del presidente, dato ai minimi storici dopo le sconfitte ad Ankara e Istanbul. Erdogan e’ ora deciso a realizzare il ricollocamento di “1 o 2 milioni di siriani” nella safe zone. Un progetto enorme, rispetto al quale Trump ha dato il via libera con il graduale disimpegno dalla Siria, che consente al presidente Usa di fermare una di quelle “guerre senza fine”, in cui Washington e’ impantanata da anni e, “smettera’ finalmente di pesare sui contribuenti americani”, per dirla con le parole dello stesso Trump. Un disimpegno che arriva dopo aver decapitato la testa dell’Isis, fatto saltare le basi di una qualsiasi rinascita del califfato e poter rivendicare dinanzi agli elettori americani la vittoria sul terrorismo islamico che ha tenuto per anni in scacco l’Occidente. Con la morte d Al Baghdadi e il riconoscimento del ruolo centrale dei curdi YPG, il presidente americano rilancia l’immagine e il peso di questi ultimi, li lascia al tavolo delle trattative della nuova Siria con il trofeo piu’ prestigioso. Un trofeo che pero’ potrebbe avere piu’ valore con l’elettorato americano che dinanzi al regime di Damasco e che difficilmente influira’ sul destino di YPG: la Russia e’ decisa a rimettere l’intera Siria in mano ad Assad e i curdi che continueranno a sognare uno stato autonomo, rimarranno per sempre “quelli che hanno sconfitto l’Isis”.

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La Nato verso nuovi Patriot e Samp-T all’Ucraina

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Da Capri a Bruxelles a Washington, l’Occidente imbocca la strada per concretizzare gli aiuti militari – compresa la difesa aerea – essenziali per Kiev in difficoltà nella guerra. Durante il Consiglio Nato-Ucraina con Volodymyr Zelensky, il segretario generale Jens Stoltenberg ha assicurato che “presto” ci saranno nuovi annunci sui sistemi di difesa per il Paese invaso. “L’Alleanza ha mappato le capacità degli alleati, ci sono sistemi che possono essere dati all’Ucraina”, ha riferito Stoltenberg al termine dell’incontro. “In aggiunta ai Patriot ci sono altri strumenti che possono essere forniti, come i Samp-T”, quelli a produzione franco-italiana. Un annuncio che arriva mentre prendono corpo i “segnali incoraggianti” evocati dal segretario di Stato Usa Antony Blinken: dopo mesi di stallo, la Camera americana ha spianato la strada ai quattro provvedimenti per gli aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan, mettendo in agenda il voto per domani.

E il Pentagono si sta preparando ad approvare rapidamente un nuovo pacchetto di aiuti militari che include artiglieria e difese aeree: secondo una fonte americana, parte del materiale potrebbe raggiungere il Paese nel giro di pochi giorni. In generale, per Kiev in ballo ci sono gli oltre 60 miliardi di dollari di forniture per le forze armate che – ha ricordato Blinken – “faranno una differenza enorme”. “Se i nuovi aiuti non verranno approvati c’è il rischio che sia troppo tardi”, ha ammonito il ministro degli Esteri Usa, mentre Zelensky ha ribadito l’allarme: i soldati “non possono più attendere” la burocrazia occidentale, la Nato deve dimostrare “se siamo davvero alleati”. La situazione sul terreno “è al limite”, ha aggiunto il leader ucraino al segretario della Nato Da parte dell’Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha “confermato quello che ha detto il presidente del Consiglio” sul fatto che il nostro Paese “farà il possibile per la protezione aerea dell’Ucraina”, mentre Kiev vuole dagli alleati ogni sistema disponibile, dai moderni Patriot – “almeno altre sette sistemi” – ai Samp-T italo-francesi. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha partecipato al Consiglio Nato-Ucraina, nel quale si è convenuto sulla necessità di uno sforzo ulteriore per sostenere Kiev. L’Italia ragiona sugli ulteriori aiuti militari da fornire quanto prima all’Ucraina e sul tavolo – si apprende – c’è la possibilità di un nuovo decreto per l’invio degli armamenti.

Anche se Crosetto ha più volte sottolineato che quasi tutto ciò che si poteva dare è stato dato. Già a Capri, dove ha partecipato al G7 Esteri, Stoltenberg aveva confermato la volontà degli alleati di accelerare sulla difesa aerea ucraina. E nel loro documento finale, i Sette ministri hanno espresso la “determinazione a rafforzare le capacità di difesa aerea” del Paese invaso, confermando l’impegno a lavorare per esaudire le richieste di Kiev, ribadite anche dal capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba, tra gli ospiti del summit in Italia. Il sostegno del G7 è pronto a tradursi anche in ulteriori sanzioni contro Teheran “se dovesse procedere con la fornitura di missili balistici o tecnologie correlate alla Russia”.

Il Gruppo ha poi puntato il dito contro la Cina, chiedendo nel suo documento finale di “interrompere” il sostegno alla macchina bellica di Mosca. Infine, i Sette hanno ribadito l’impegno ad attuare e far rispettare le sanzioni contro i russi, minacciando di “adottare nuove misure, se necessario”. In vista del vertice dei leader in programma a giugno in Puglia, il G7 lavora inoltre alle “possibili opzioni praticabili” per usare i beni russi congelati a sostegno dell’Ucraina, “in linea con i rispettivi sistemi giuridici e il diritto internazionale”. Finora l’Ue ha trovato le basi legali solo per l’uso degli extraprofitti, ma bisogna ancora capire se si può fare un passo in più mettendo le mani direttamente sugli asset.

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Teheran avverte Israele, ‘non fate altri errori’

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“Un fallimento”, “fuochi d’artificio”, “la situazione è completamente normale”. La Repubblica islamica tace sulle esplosioni o minimizza l’attacco notturno, attribuito a Tel Aviv, che ha colpito una base militare a Isfahan nel giorno dell’85esimo compleanno della Guida suprema Ali Khamenei. Vari esponenti del governo e delle forze armate iraniane hanno continuato a minacciare una “risposta massima e definitiva” contro lo Stato ebraico mentre l’attacco veniva sminuito. Secondo Teheran, le esplosioni sentite nella notte sono dovute al sistema di difesa iraniano che ha preso di mira “mini droni di sorveglianza americani o israeliani”, lanciati a meno di una settimana dall’attacco dell’Iran contro Israele, in ritorsione per l’uccisione di sette membri delle Guardie della rivoluzione in un raid contro l’ambasciata iraniana di Damasco.

Dopo la chiusura, temporanea, dello spazio aereo su Teheran e altre città, i media della Repubblica islamica si sono affrettati ad assicurare che, in seguito all’abbattimento di “oggetti volanti sospetti”, la situazione era tornata alla completa normalità mentre i siti nucleari nella zona non sono stati danneggiati dall’attacco, come confermato anche dall’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), e hanno continuato ad operare “in totale sicurezza”. L’attribuzione dell’attacco a Israele è stata inizialmente bollata come “un’assurdità” dal comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, mentre il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha negato di aver tenuto una riunione d’emergenza, smentendo indiscrezioni apparse sui “media stranieri”. Il governo di Teheran e i vertici militari hanno evitato in ogni modo di parlare direttamente dell’attacco, con l’eccezione del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian che, senza esplicitamente accusare lo Stato ebraico, ha definito l’attacco un “fallimento”, dipinto come una vittoria ed “esagerato dai media filo israeliani”, sottolineando che i droni sono stati abbattuti senza causare danni o vittime.

“La nostra prossima risposta sarà immediata e ai massimi livelli nel caso in cui il regime di Israele si imbarchi nuovamente in avventurismo e intraprenda azioni contro gli interessi dell’Iran”, ha ribadito Amirabdollahian, affermando che un eventuale risposta “decisiva e definitiva” contro Israele è già stata pianificata nel dettaglio dalle forze armate iraniane. La responsabilità di Israele è stata comunque indicata da figure politiche minori. Come il deputato Mehdi Toghyani, secondo cui “il disperato tentativo del regime sionista, con l’aiuto di agenti locali, di portare avanti un attacco con vari piccoli droni contro una base militare di Isfahan è fallito e ha portato loro ulteriore disgrazia”. Più cauto Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri e negoziatore per Teheran all’epoca dell’accordo sul nucleare del 2015, che ha chiesto alla comunità internazionale di fermare Israele “alla luce degli imprudenti fuochi d’artificio di Isfahan”.

Nessun commento sull’attacco da Khamenei, come anche da parte del presidente Ebrahim Raisi, che ha completamente ignorato i fatti di Isfahan durante un’apparizione pubblica a Damghan, nella provincia settentrionale di Semnan. “Questa operazione ha dimostrato l’autorità del sistema della Repubblica Islamica e la potenza delle nostre forze armate”, ha detto il presidente iraniano tornando a parlare della ritorsione di Teheran contro Tel Aviv per il raid di Damasco.

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Kiev esulta, ‘abbattuto bombardiere russo’. Mosca nega

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Per la prima volta dall’inizio dell’invasione, le forze ucraine hanno annunciato di aver colpito e abbattuto un bombardiere russo. Lo stesso che poco prima aveva lanciato un raid sulla regione di Dnipro, con un nuovo bilancio di morte in un’altra notte di guerra in Europa: almeno nove persone uccise fra cui tre minori, di 14, 8 e 6 anni. I feriti sono 24. A Dnipro è stato preso di mira anche un edificio residenziale, distruggendolo in gran parte, e la linea ferroviaria, secondo quanto ha denunciato subito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il quale ha fatto visita ai soldati nel Donetsk, dove l’esercito russo sta aumentando la pressione.

Lo stillicidio di morti nel cuore dell’Europa viaggia però di pari passo alla guerra di parole, con Mosca che ha negato a strettissimo giro di aver perso un suo bombardiere sotto il fuoco ucraino: il ministero della Difesa russo ha affermato che il Tupolev Tu-22M3 è sì precipitato nella regione russa di Stavropol, ma a causa di un guasto tecnico, aggiungendo che nell’incidente ha perso la vita uno dei quattro membri dell’equipaggio. “Le informazioni preliminari disponibili indicano che l’incidente è stato causato da un malfunzionamento tecnico”, si legge in un comunicato del ministero. A bordo dell’aereo “non c’erano munizioni” e il velivolo “si è schiantato in una zona disabitata”, prosegue la nota, secondo cui il Tu-22M3 è precipitato mentre rientrava alla base dopo aver completato una missione di combattimento.

Il resoconto dell’Aeronautica di Kiev racconta un’altra storia: nella notte le forze ucraine hanno abbattuto 30 obiettivi aerei russi su 36, incluso il bombardiere strategico a lungo raggio Tu-22M3, hanno specificato sul loro canale Telegram i militari. Quindi i dettagli. L’esercito russo ha lanciato due missili da crociera X-101/X-555, 14 droni kamikaze Shahed-131/136, 12 missili guidati X-59/X-69, due missili da crociera Iskander-K e sei missili da crociera X-22, ha affermato Kiev, aggiungendo: oltre al bombardiere Tu-22M3, sono stati distrutti i due missili da crociera X-101/X-555, i 14 droni Shahed, 11 missili guidati X-59/X-69 e i due missili X-22. L’artiglieria russa ha bombardato anche la comunità di Kutsurbskaya, nell’area di Mykolaiv, provocando la morte di una donna e il ferimento del marito e di un ragazzo, stando al governatore della regione, Vitaly Kim, citato dalla stampa ucraina. Intanto nella città di New York, vicino al fronte nel Donetsk, una persona è rimasta uccisa e un’altra è rimasta ferita in un bombardamento, ha annunciato il governatore locale.

Mentre continuano gli aggiornamenti sull’attacco nella regione di Dnipro, da dove l’operatore ferroviario Ukrzaliznytsia ha fatto sapere che una donna che era in servizio in quel momento è stata uccisa e altri sette ferrovieri sono rimasti feriti, e i servizi di soccorso continuano a scavare fra le macerie consapevoli che il numero delle vittime potrebbe aumentare ancora. Le capacità di terra dell’esercito ucraino, privo di munizioni e uomini, sono “limitate” e rimarranno tali finché la Russia manterrà il vantaggio nei cieli, ha lamentato Zelensky intervenendo al Consiglio Nato-Ucraina ribadendo l’appello a rafforzare e soprattutto concretizzare il loro sostegno all’Ucraina: “Abbiamo bisogno di almeno altri sette Patriot o sistemi di difesa aerea simili – ed è un numero minimo”, ha detto. La Nato deve decidere “se siamo alleati davvero”, ha insistito il leader ucraino: “Il nostro cielo deve diventare di nuovo sicuro. E dipende interamente dalla vostra scelta. Scegliere se la vita ha davvero lo stesso valore ovunque. Scegliere se avete un atteggiamento uguale verso tutti i partner. Scegliere se siamo davvero alleati”.

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