Ventiquattro anni fa un incendio doloso ridusse in cenere il deposito Agrimonda in via Pasubio, nel Comune di Mariglianella al confine con Marigliano, nel cuore della Terra dei Fuochi. Quella notte bruciarono tonnellate di prodotti chimici. La rimozione dei rifiuti tossici è stata completata soltanto lo scorso dicembre. Intanto, però, le scorie combuste avevano contaminato il terreno e le falde acquifere. Nonostante le esalazioni, che hanno reso la vita impossibile ai residenti, e svariati casi di tumore registrati nella zona in questi anni, la bonifica non è stata ancora realizzata. Con Ciro Tufano, presidente del Comitato cittadino Ambiente e Territorio, proviamo a capire quali sono stati e quali sono gli effetti di quel disastro ambientale consumatosi nel silenzio assordante delle istituzioni locali e nazionali.
Ciro Tufano e le immagini del sito di bonifica Agrimonda
Che cosa è successo 24 anni fa in via Pasubio?
Agrimonda era un deposito di prodotti chimici per l’agricoltura: fitofarmaci, pesticidi, concimi. Il 18 luglio 1995 bruciò tutto: un incendio di carattere doloso. E´ stato detto che la ditta non pagasse il racket delle estorsioni.
Ciro, lei abita a pochi metri dal sito. Ci racconta cosa significa vivere lì?
Vuol dire convivere con il costante timore di ammalarsi di cancro: un incubo. Per troppi anni l’unica protezione da questi rifiuti tossici è stato un telone squarciato. Ogni tanto veniva fatto qualche rattoppo. Le istituzioni ci hanno sempre rassicurato affermando che la situazione fosse sotto controllo. Eppure, nella sola stradina di Via Pasubio quattro persone sono state colpite da tumore, più altri casi in un raggio più ampio. La correlazione fra i due eventi non è stata però accertata. Abbiamo poi il problema delle esalazioni, una situazione davvero insopportabile.
Dopo oltre vent’anni ancora nessun intervento per la bonifica. Come è possibile?
Se sono passati 24 anni significa che sono state davvero poche le persone che si sono realmente interessate alla vicenda. Per troppo tempo abbiamo sollecitato le istituzioni, ma la risposta era sempre la stessa: mancavano i fondi necessari e quindi non si poteva procedere con la bonifica. Alcuni anni fa decidemmo allora di sporgere denuncia contro tutte le istituzioni in campo per omissione nell’opera di bonifica. Nel 2012 è arrivato il finanziamento stanziato dal Ministero dell’Ambiente, che ha poi trasferito le competenze alla Regione Campania. In un primo momento infatti l’ex deposito Agrimonda era rientrato nella lista dei siti di interesse nazionale; fu poi derubricato e la competenza trasferita alla Regione.
Lo scorso dicembre finalmente la rimozione dei rifiuti combusti.
Sì, dopo un’eternità. I lavori sarebbero dovuti durare appena tre mesi, invece si sono protratti fino a dicembre 2018. Erano iniziati a giugno del 2017. Questo già ti fa comprendere la gravità e la criticità della situazione. Sono state rimosse cinquemila tonnellate di scorie combuste. Per eseguire la rimozione, sono stati tolti il telone ed il terreno che coprivano i rifiuti. Senza questa protezione, i miasmi si sono fatti ancora più intensi.
Quali sono stati i risultati dei rilievi dell’Arpac?
I risultati dei rilievi dell’Arpac pubblicati lo scorso 3 maggio hanno confermato i nostri sospetti: la falda acquifera e il top soil, lo strato superiore del terreno, sono contaminati. Sono emersi valori molto elevati di mercurio, alluminio, benzene, solventi e fitofarmaci. Hanno rinvenuto persino tracce di DDT, una sostanza che era già bandita ai tempi dell’incendio. In via precauzionale, i sindaci dei due comuni coinvolti hanno interdetto con un’ordinanza l’uso dei pozzi nelle zone limitrofe al sito.
Mancano ancora messa in sicurezza e bonifica.
Esatto. Dopo una nota dell’Arpac che sollecitava la messa in sicurezza di emergenza, l’8 maggio scorso c’è stato un tavolo tecnico al Comune. Da allora siamo in attesa, non è stato fatto nulla. Stanno progettando un nuovo telone che servirà a non fare dilavare le acque meteoriche, le quali vanno a contaminare ulteriormente la falda acquifera. Mi auguro che possa essere installato quanto prima, per risolvere almeno il problema delle esalazioni. Per quanto riguarda la bonifica, secondo i sindaci dei due comuni, la procedura in Regione sarebbe già stata attivata. Personalmente sono abbastanza scettico; non penso si farà a breve.
Come si sono comportate le istituzioni durante tutti questi anni?
Dalle amministrazioni comunali siamo spesso stati etichettati come allarmisti. La faccenda è stata a lungo sottovalutata, ma i recenti rilievi dell’Arpac ci hanno dato ragione. Le istituzioni hanno mostrato scarsa attenzione verso le segnalazioni dei cittadini. Le nostre richieste di aiuto non sono state ascoltate. Da parte nostra, ci siamo prodigati in ogni modo possibile. Abbiamo fondato il Comitato Cittadino Ambiente e Territorio, di cui sono presidente. Abbiamo tenuto un convegno informativo a nostre spese, presentato al Comune, con importanti docenti universitari, quali la dottoressa Triassi della Federico II, e il dottor Marfella, noto tossicologo. Ma dall’amministrazione nessuna risposta. Dopo anni sono arrivati i fondi e allora è stata portata a termine la rimozione.
Ma della bonifica neanche l’ombra. Sono arrabbiato perché ho visto indifferenza totale da parte delle istituzioni di fronte ad un’importante minaccia per la salute dei cittadini.
In un’epoca in cui le storie a lieto fine sembrano sempre più rare, ecco un racconto che riempie il cuore di speranza e orgoglio, come confermato dai responsabili dell’ASL di Napoli. Questa vicenda proviene dalla provincia di Caserta, dove è stata ritrovata una giovane cicogna nera, una specie migratrice e rara in Europa, gravemente ferita da arma da fuoco. La cicogna, una femmina di appena un anno, appartiene alla specie Ciconia nigra, considerata a rischio di estinzione, rendendo il suo ritrovamento e il suo recupero ancora più significativi.
Appena individuata, la cicogna è stata trasportata d’urgenza presso il Centro Recupero Animali Selvatici (CRAS) “Federico II”, parte del Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali. Questo centro, in collaborazione con l’ASL Napoli 1 Centro, svolge un ruolo cruciale per il recupero e la tutela della fauna selvatica, fornendo soccorso a esemplari in difficoltà. In questo caso, la storia è stata resa ancora più speciale dal supporto del Gruppo Carabinieri Forestale di Caserta, che ha affiancato il CRAS per gli aspetti giuridici della vicenda.
Il percorso di recupero della cicogna è stato lungo e complesso: le cure intensive, seguite da una delicata fase di riabilitazione, hanno richiesto dedizione, professionalità e pazienza. Dopo settimane di lavoro instancabile, finalmente l’esemplare è stato ritenuto pronto per essere reintrodotto nel suo habitat naturale.
A fine luglio, la cicogna nera è stata reintrodotta in natura. La fase di rilascio è avvenuta con un approccio controllato e graduale, durante il quale l’esemplare è stato monitorato attentamente dal personale veterinario dell’ASL Napoli 1 Centro e del CRAS “Federico II”. La fase di reimmissione è stata gestita in collaborazione con l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che ha supervisionato l’operazione e fornito supporto per il monitoraggio GPS
La cicogna nera è anche parte di un progetto europeo di inanellamento e monitoraggio satellitare tramite GPS, che permette di seguire gli spostamenti degli esemplari nel loro percorso migratorio dalla Polonia al Mediterraneo, fino all’Africa sub-sahariana. Al momento del rilascio, il personale autorizzato dell’ISPRA ha applicato un dispositivo GPS all’animale, permettendo così un monitoraggio a distanza per seguirne i movimenti e registrare eventuali spostamenti migratori.
Grazie ai dati trasmessi dal GPS, si è potuto constatare che la cicogna ha raggiunto un pieno recupero, confermato dai suoi spostamenti di medio raggio in una delle rare aree italiane che ospitano la specie. La presenza di giovani esemplari in questa zona del Sud Italia rappresenta un segno di speranza per la conservazione della Ciconia nigra, una specie che da tempo affronta gravi minacce alla sopravvivenza.
La storia di questa cicogna nera ferita e salvata è una testimonianza dell’impegno dei professionisti che lavorano nei centri di recupero animali, che ogni giorno si dedicano alla cura e alla protezione della fauna selvatica. Salvare una vita così fragile e restituirla alla natura rappresenta una vittoria per tutti coloro che, come il personale del CRAS “Federico II” e dell’ASL Napoli 1 Centro, si dedicano con passione a tutelare l’ambiente.
Non si può che emozionarsi di fronte alla visione di questa giovane cicogna, finalmente libera di tornare a volare nel suo habitat, libera di vivere la sua vita lì dove la natura l’ha destinata. Questo esempio di rinascita e speranza è un promemoria prezioso di quanto sia importante proteggere e rispettare le creature che condividono con noi questo pianeta.
Il riscaldamento globale (la foto imagoeconomica in evidenza) costerà 38.000 miliardi di dollari all’anno nei prossimi 25 anni, sotto forma di danni da siccità, incendi ed eventi meteo estremi. Ma le emissioni da combustibili fossili che provocano il riscaldamento non scendono, nonostante gli impegni solenni di politici e imprenditori. Nel 2023 sono salite dell’1,1% rispetto all’anno precedente. I conti sul cambiamento climatico li ha fatti l’Istituto tedesco per la ricerca sull’impatto climatico di Potsdam, in una ricerca pubblicata nei mesi scorsi sulla rivista Nature.
Lo studio valuta le perdite annue all’interno di una forchetta fra i 19.000 e i 59.000 miliardi di dollari, con un valore medio di 38.000 miliardi. Per arrivare a questi dati, i ricercatori tedeschi hanno analizzato come il cambiamento climatico abbia danneggiato l’economia in più di 1.600 regioni nei 40 anni passati. Poi hanno usato questi dati per costruire un modello che permetta di calcolare i danni futuri.
Questi potranno provenire da siccità, eventi meteo estremi, incendi, che impattano sui raccolti agricoli, la produttività del lavoro e le infrastrutture. E che hanno costi altissimi. Soltanto nel 2023, secondo i conti del colosso assicurativo Swiss Re, 142 catastrofi naturali hanno provocato 76mila vittime, 108 miliardi di danni di perdite assicurate e 280 miliardi di danni totali. Altri 120 miliardi soltando nei primi 6 mesi di quest’anno. Fenomeni che dal 1994 ad oggi aumentano ad un ritmo compreso tra il 5% e il 7% ogni anno, con sempre più record negativi.
Ed infatti, tornando alla ricerca tedesca, l’economia mondiale è avviata a una riduzione di reddito del 19% nei prossimi 25 anni. Ma in mancanza di provvedimenti adeguati, la perdita potrebbe salire al 60% al 2100. Il problema è che il mondo non sta prendendo provvedimenti adeguati. Le emissioni globali di Co2, il principale gas serra, nel 2023 sono aumentate dell’1,1% rispetto rispetto al 2022. Usa ed Europa hanno tagliato le loro emissioni, rispettivamente del 7,4% e del 3%, ma Cina e India le hanno aumentate, dell’8,3% e del 4%.
Ed in alcuni casi hanno contribuito anche i paesi più ricchi che hanno spostato alcune produzioni inquinanti in quelli emergenti. “C’è la tendenza a sottovalutare i rischi economici e finanziari del cambiamento climatico – commenta Batrice Moro, analista del think tank italiano per il clima Ecco -. Sono rischi fisici, di danni da siccità ed eventi meteo, e rischi di transizione, ad esempio per investimenti nelle fonti fossili che rovinano l’immagine o vengono bloccati dalle autorità. Se non investiamo nella mitigazione, questi rischi aumentano. Ma questa consapevolezza non è ancora entrata nella visione a lungo termine dei mercati finanziari”.
Si nascondono nel Canale di Sicilia gli ultimi squali bianchi del Mediterraneo, i più grandi pesci predatori del pianeta: le loro tracce sono state localizzate nel corso di diverse spedizioni guidate dall’italiano Francesco Ferretti della statunitense Virginia Tech, che è andato in cerca di questi animali per salvare la loro popolazione, fortemente a rischio di estinzione.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Marine Science, ha visto la partecipazione anche dell’Università Politecnica delle Marche e della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. La ricerca vuole essere il primo passo verso l’istituzione di un programma di monitoraggio degli squali nella regione, nell’ambito degli sforzi attualmente in corso per prevenirne la scomparsa.
“Abbiamo deciso di accettare la sfida e trovare gli ultimi squali bianchi rimasti nel Mediterraneo”, dice Ferretti: “Non è stato facile perché questi squali sono estremamente rari”. Finora, infatti, non si conoscevano i luoghi di aggregazione di questi animali nel Mar Mediterraneo, dove le loro abitudini, come è emerso, sono radicalmente diverse da quelle che caratterizzano la maggior parte delle altre popolazioni sparse per il mondo.
“Questi si cibano prevalentemente di tonni e pesci piccoli, una cosa che quasi ribalta la nostra comprensione degli squali”, afferma Taylor Chapple dell’Università dell’Oregon, co-autore dello studio.
“Questa dieta permette a questi animali, che pesano un paio di tonnellate, di sopravvivere grazie a risorse davvero sorprendenti: le foche, di cui spesso si nutrono gli squali bianchi, sono molto più grasse rispetto ai tonni, eppure questi ultimi gli permettono comunque di raggiungere quelle dimensioni”.
Nel corso delle spedizioni, organizzate dal 2021 al 2023, i ricercatori hanno utilizzato nuovi metodi e tecnologie, come l’analisi del Dna ambientale, il cosiddetto eDna, che permette di rilevare tracce di Dna dell’animale nell’acqua, e telecamere subacquee dotate di esche per attirare gli squali. Il viaggio ha condotto il gruppo da Marsala, sulla punta Nord-occidentale della Sicilia, a diverse isole come Lampedusa e Pantelleria, fino ad arrivare oltre Tunisia e Malta. Gli sforzi hanno ripagato quando, in cinque occasioni, sono state individuate tracce soprattutto nella parte meridionale del Canale di Sicilia.
“Quest’area subisce molto l’impatto delle attività di pesca – aggiunge Ferretti – ed è qui che ora stiamo concentrando i nostri sforzi: queste prime spedizioni pilota ci hanno infatti permesso di ricalibrarci in vista di un progetto più ampio e hanno fornito preziose informazioni su dove concentrare gli sforzi futuri”.
Il gruppo sta ora pianificando e raccogliendo i fondi per nuove spedizioni, sia nel Canale di Sicilia che in altre zone del Mediterraneo. “Sappiamo che lì c’è un punto caldo – conclude il ricercatore italiano – ma potrebbero esserci anche altre aree importanti nel Mediterraneo orientale, che forse ospitano habitat critici come una ‘nursery’ di squali bianchi”.