Morti per Covid, 99. Il 12% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva, l’1,6% di quelli assistiti in area medica. Sono troppi. A poco serve dire che “stiamo meglio” della Francia, della Germania, del Regno Unito; che stiamo “assai meglio” degli Stati Uniti. Mi sorge un dubbio, da osservatore un po’ frastornato in questa “epimedia”, come abbiamo chiamato il mondo in cui si forma e circola l’informazione sulla “epidemia”. Forse non sappiamo curare efficacemente il Covid. Voglio dire: ci stiamo appoggiando troppo sulle strategie di “prevenzione” e ancora troppo poco sulle strategie di cura. Vaccinazioni? Benissimo. Distanziamento sociale e mascherine? Altrettanto bene. Implementazioni delle prime, in linea con le acquisizioni scientifiche in progress? E’ quel che facciamo. Implementazioni delle tecniche di protezione collettiva, ingegneristiche ed organizzative? E’ ciò che attendiamo di fare. Ma le terapie sembrano indietro.

Intendiamoci: la storia delle epidemie in Europa –che faremmo bene a non dimenticare o sottovalutare- ci dice che è s.e.m.p.r.e. stato così, dalla peste tucididea di Atene in avanti: le misure di sanità pubblica –ossia, in buona sostanza, la prevenzione- sono sempre state prevalenti, quanto ad efficacia, sulla medicina curativa. Questo tuttavia non vuol dire che non si possa cambiare registro, innestare come tratto saliente della contemporaneità medica un riscatto delle strategie terapeutiche su quelle di salute pubblica.
Il fatto è che si avanza su questo terreno, ma non come di vorrebbe e, forse, come si dovrebbe. E ciò, anche a causa del cortocircuito informazione/comunicazione imputabile a “epimedia”.

Proviamo allora a schivare l’alluvione di dati che fanno molto rumore sul piano comunicativo ma restano desolatamente poveri sul piano informativo. Considerando il diagramma di Venn presentato ieri, mi concentrerei prioritariamente su quei morti e porrei all’area medica, e più specificatamente a quella clinica, alcune domande. Cinque per la precisione:
- Chi sono le persone che muoiono (intendo i 99 di Sant’Ambrogio più l’insieme di coloro che sono deceduti, diciamo, nell’ultimo mese, dal 7 Novembre): sono uomini, sono donne; a quale fascia decennale appartengono a partire dagli ultra-ottantenni; qual è la mappa regionale delle morti; qual è l’istogramma della distribuzione dei decessi per grandi, medi e piccoli centri.
- Perché i morti sono morti, ossia qual era il loro quadro clinico al momento del primo ricovero, quante erano e quali erano le patologie pregresse di cui erano portatori.
- Come sono morti, quale catena patogenetica li ha uccisi.
- Qual è la storia terapeutica (per gruppi socio-sanitari e territoriali, come indicato) a partire dalla prima diagnosi di infezione: e quindi percorso cure domiciliari-ricovero in area medica-ricovero in terapia intensiva.
- Ritenendo fondamentale la storia terapeutica dei pazienti, si capisce se nelle tre situazioni del percorso (eventuale) sono stati seguiti dei protocolli di cura standard e quali.
Queste domande non sono né vogliono essere inquisitorie, ma manifestano un’esigenza e un’urgenza informativa del grande pubblico che vuole farsi un’opinione ragionata. Rispondere equivarrebbe a dirci chi, dove, come e perché muore di Covid. E ci direbbe se le sequenze terapeutiche in questo Paese sono affidate all’inventiva dei singoli medici e ai disciplinari dei singoli nosocomi o ASL, o promanano da direttive nazionali. Se hanno una struttura omogenea oppure si basano su linee-guida differenziate.
In Italia si fa un’ottima informazione, ad esempio attraverso la Fondazione Gimme o la Fondazione Hume. Aggiungere un altro filone a questa conoscenza tanto seria quanto discreta, non sarebbe per niente male.