Fatturato ed ordinativi in calo. Povertà in aumento. Occupazione stabile. Disoccupazione che resta una piaga. Un Paese che non cresce. Lo spettro dell’aumento dell’Iva orizzonte. Una manovra economica lacrime e sangue da varare. Due forze politiche (M5S e Lega) alla guida del Paese che litigano più o meno su tutto pur avendo un programma condiviso messo nero su bianco in quello che han chiamato contratto di Governo. Ebbene, in questo contesto non proprio roseo e con una strisciante crisi di Governo in atto, c’è un senatore romano, che ha un cognome che ironia della sorte è Barbaro (Claudio), che si occupa di San Giuseppe Vesuviano.
Claudio Barbaro, senatore nato a Formello arrivato alla corte della Lega di Matteo Salvini, ha “interrogato” il ministro della Difesa (la ministra se vi piace di più) Elisabetta Trenta su quello che fanno i carabinieri della stazione di San Giuseppe Vesuviano. Qualcuno obietterà: e allora? Che c’è di male? È un senatore, le interrogazione sono atti di sindacato ispettivo che rientrano tra quegli strumenti che la Costituzione mette a disposizione dei parlamentari per discutere e risolvere problemi del Paese. Infatti, non c’è niente di male nella interrogazione del senatore Claudio Barbaro della Lega. La questione, infatti, è un’altra. Forse il senatore manco sa dove si trova esattamente San Giuseppe Vesuviano, probabilmente farà confusione con San Gennaro Vesuviano o con Somma Vesuviana. Ma poco importa. Il senatore Claudio Barbaro, in una interpellanza urgente presentata il 19 luglio (poche ore fa) vuole sapere che cosa intende fare il ministro della Difesa Elisabetta Trenta rispetto ad una inchiesta dei carabinieri di San Giuseppe Vesuviano che nel 2015 (avete letto bene, 2015) erano partiti da una sanzione amministrativa ad un venditore ambulante per poi arrivare a fare una inchiesta per corruzione e concussione (coordinata dalla procura di Nola) finita al Riesame con l’assoluzione di un imputato (un assessore all’epoca) “per non aver commesso il fatto”.
Cioè, per capirci, al senatore Claudio Barbaro non interessa tanto che l’imputato sia stato assolto (in un processo gli inquirenti raccolgono prove e poi provano a portarle in giudizio), vorrebbe che il ministro della Difesa prendesse provvedimenti contro un carabiniere reo di aver indagato. Eppure il senatore dovrebbe sapere che quando un carabiniere (poliziotto, finanziere o altri) indaga uno di noi, poi non dobbiamo per forza andare in galera o finire a processo. Può darsi che in sede di indagini l’investivgatore sbagli a mettere assieme le prove, può darsi che poi il magistrato che coordina le indagini ritenga che non bastino le prove per portare alla sbarra un cittadino. Poi ci sono i giudici terzi che giudicano le indagini. Poi c’è il Tribunale del Riesame. Insomma, per fortuna non siamo in balìa di investigatori e pm ma siamo soggetti alla legge tutti, in un quadro di garanzie e regole che dovrebbero farci sentire tranquilli. E invece il senatore Barbaro presenta una interrogazione al Senato ad personam, volta mettere sulla graticola non già una caserma dei carabinieri o una procura (quella di Nola) ma un carabiniere in particolare. Forse il senatore Barbaro non lo sa, ma con quella interrogazione va a colpire direttamente (senza fargli paura, immaginiamo) il maresciallo G. S. della stazione di San Giuseppe Vesuviano. Perché questa interrogazione parlamentare all’improvviso? E perché contro il maresciallo dell’Arma G.S., uomo in divisa di altri tempi, stimato, amato e apprezzato nel centro vesuviano oltre che dai vertici dell’Arma provinciale e regionale? E perchè questa interrogazione arriva da un senatore romano di Formello che di cognome fa Barbaro? Forse Barbaro non lo sa. E se non lo sa, d’ora in poi non potrà più dire “ma io non ne sapevo nulla”.
Il ministro e il sindaco. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini e il primo cittadino leghista, Vincenzo Catapano
La stazione dei carabinieri di San Giuseppe Vesuviano sta indagando sul comune di San Giuseppe Vesuviano. Sono in corso interrogatori su attività amministrative e presunte infiltrazioni (presunte, le indagini non sono il Vangelo) mafiose nella macchina comunale. È probabile che queste attività investigative, questi interrogatori diano fastidio alla classe politica locale che ne sta sopportando le conseguenza, e dunque si prova a dare qualche schiaffo al maresciallo dei carabinieri usando strumenti leciti (l’interrogazione parlamentare) per fare cose non esattamente commendevoli. Forse qualcuno teme che queste indagini in corso abbiamo già preso un po’ di sostanza e possano essere utili al prefetto di Napoli per chiedere di istituire una commissione di accesso al comune al fine di verificare presunte infiltrazioni mafiose che ne determinerebbero lo scioglimento da parte del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Qualcuno, qualche malpensante, obietterà: ma Salvini non scioglierebbe mai un comune guida leghista? Falso, Salvini non scioglie comuni ma firma atti di funzionari dello Stato che non hanno partito ma che osservano e applicano la legge. Ecco, ora il senatore Barbaro lo sa. Con quella interrogazione parlamentare contro il maresciallo G.S., forse ha colto nel segno. Non ha (crediamo) messo paura al maresciallo dei carabinieri (da quelle parti non hanno paura della camorra figurarsi di una interrogazione.
Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.