All’abbraccio della sua famiglia, che gia’ ieri aveva potuto stringersi di nuovo a lei, tra emozione e lacrime, si e’ unito oggi anche quello della sua citta’. Milano, infatti, ha accolto nel pomeriggio di una giornata grigia di pioggia il ritorno a casa, con sorrisi carichi di felicita’, di Silvia Romano, la cooperante 24enne rapita in Kenya nel 2018 e liberata due giorni fa in Somalia, dopo un anno e mezzo di prigionia.
Ph. da FB pagina Silvia Romano Libera
Un ritorno che ha portato, ovviamente, gioia e soddisfazione, ma anche una serie di polemiche politiche soprattutto legate alla scelta della ragazza di convertirsi all’Islam, col nome di Aisha, e all’ipotesi del pagamento di un riscatto per liberarla. In piu’, per lei in queste ore una lista infinita di insulti via social network, tanto che la Prefettura sta valutando il tipo di tutela, fissa o mobile, a cui verrà sottoposta, mentre per ora per 14 giorni dovra’ rimanere in isolamento domiciliare come prevedono le disposizioni per il contenimento del Coronavirus. Dopo il suo arrivo, davanti al palazzo dove la giovane abita con la madre si sono piazzate quattro auto della polizia e due dei carabinieri, con agenti e militari disposti davanti al portone.
Silvia Romano, dopo essere atterrata a Ciampino ieri e dopo essere stata ascoltata dai pm romani, ai quali ha riferito di essere sempre stata trattata bene dai sequestratori e che la sua conversione fu una decisione volontaria, a meta’ pomeriggio, dopo un viaggio in auto da Roma, e’ arrivata nella sua abitazione di via Casoretto, nella periferia nord del capoluogo lombardo. Con lei la madre e la sorella. “Rispettate questo momento”, sono state le poche parole rivolte ai tanti cronisti che l’attendevano dalla giovane che indossava, come ieri, un tradizionale vestito delle donne somale e che si e’ tolta per un momento la mascherina per sorridere ed entrare nel palazzo. E dalla finestra, poi, ha mostrato il pollice alzato e si e’ messa la mano destra sul cuore per ringraziare tutti, mentre in strada veniva scandito il suo nome.
Anche oggi, come gia’ ieri quando ancora non era arrivata a casa, il suo quartiere ha voluto salutarla con un lungo applauso dai balconi e con gente scesa in strada, malgrado la pioggia, per festeggiarla. Sulla porta del condominio sono stati lasciati fiori e attaccati cartelli di benvenuto: ‘La terra ha davvero tanto bisogno di persone come te, grazie di esistere’. E pure il Consiglio comunale di Milano l’ha omaggiata con un “”bentornata a casa” in apertura della seduta. Da destra, pero’, sono arrivate soprattutto critiche dure. Matteo Salvini se l’e’ presa, in particolare, con l’atteggiamento del Governo: “Mettetevi nei panni di quei terroristi islamici maledetti che hanno rapito questa splendida ragazza – ha detto il leader della Lega – l’hanno vista scendere col velo islamico, ha detto che e’ stata trattata bene, ha studiato l’arabo, letto il Corano, si e’ convertita, in piu’ hanno preso dei soldi, io penso che un ritorno piu’ riservato avrebbe evitato pubblicita’ gratuita a questi infami”.
Alle polemiche ha risposto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Silvia e’ viva, sta bene. Adesso, per favore, un po’ di rispetto”. Un consigliere regionale della Lega in Abruzzo, Simone Angelosante, intanto, ha pubblicato un post con su scritto: “Avete mai sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?”. Consigliere dai cui la Lega ha preso le distanze. Un messaggio di vicinanza ed affetto per la ragazza e’ arrivato, nel frattempo, anche dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei: “Tutti, in questo momento, la sentiamo nostra figlia, una nostra figlia che ha corso dei pericoli enormi, che ha avuto coraggio e forza d’animo”. Per Giorgia Meloni, leader di Fdi, invece, la conversione della cooperante “e’ un modus operandi del terrorismo e dell’integralismo islamico”. Da Fdi, infine, anche la richiesta di vietare “per legge il pagamento dei riscatti dei rapiti all’estero soprattutto di natura terroristica”.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.