L’affare del calcio e dei diritti tv in Italia. I players in questo business. Le lobbies che se ne interessano. Una serie di strani movimenti tra i broadcast (scambi di canali, programmi e persino dipendenti) che si occupano dell’affare del pallone. Appalti fatti, rivisti, revocati, rifatti, strappati, di nuovo assegnati, poi tolti, quindi riassegnati. Che cosa succede in questo dorato mondo che vale oltre un miliardo di euro ogni anno? Com’è che all’improvviso l’inglese Dazn entra in un mercato italiano che sembrava essere stato già opzionato dai catalani di Mediapro che si erano aggiudicati i diritti del pallone italiano in tv? Perchè Perform sborsa 193 milioni di euro a stagione per tre gare su dieci di Serie A, più altri 22 per l’intera Serie B? E soprattutto chi ha consigliato agli inglesi di promettere un servizio decente in streaming, addirittura in Hd, in un paese dove l’infrastruttura tecnologica della rete è pessima in molte parti d’Italia e decente solo in grandi metropoli o città ben cablate del Nord? La visione su Internet in alta definizione offerta da Perform, in base alle denunce di abbonati e associazioni di consumatori, è pessima. Anzi, al telespettatore pagante, con mezzi tecnici scadenti, si rende un servizio che non è bello come lo si pubblicizza ma deludente se non peggio. Eppure in questa vicenda che tocca Dazn ovvero la controllata di Perform, troppe cose non girano per il verso giusto. Perform sembra giocare un ruolo di comparsa in una farsa.
Quartier generale di Sky a Milano. Nel calcio la tv di Murdoch è oramai monopolista in Italia
L’attore principale è Sky. La piattaforma satellitare monopolista dell’etere in Italia qualche mese fa, con l’assegnazione dei diritti tv del calcio ai catalani di Mediapro vincitori di una licitazione pubblica pulita, sembrava quasi doversi rassegnare ad un ruolo di comprimaria. E invece, per ragioni che la Guardia di Finanza sta indagando, il pacchetto dei diritti tv è stato spacchettato, cambiato, la gara è stata annullata, con ovvi strascichi giudiziari. Alla fine Sky Italia, nel silenzio di molti media e giornalisti normalmente assai attenti, oggi può sentirsi monopolista più o meno assoluto della visione del calcio in Italia. Insomma se vuoi vedere il calcio in tv, di riffa o di raffa devi abbonarti a Sky. Che ha l’esclusiva del settanta per cento del campionato (fino a pochi mesi fa era in mano a Mediapro) e dei tornei europei. La spesa? Poco più di 1,115 miliardi di euro all’anno. Eppure soltanto pochi mesi fa lo scenario era tutt’altro. Ma si sa, Sky non si arrende facilmente. Ha un buon ufficio legale interno. Oltre a strutture esterne che fanno un lavoro, spesso meno fine, nel senso difficile. Ed ha anche un eccellente struttura di lobbing di cui ci si occuperà presto anche per altri motivi. Ma proviamo a capire come ha fatto Sky a passare da azienda senza più i diritti tv del calcio in portafoglio a monopolista assoluto con poche mosse.
A inizio anno, tra gennaio e febbraio del 2018, col campionato ancora in corso, con la Juve e il Napoli che se lo contendono, con la politica che si avvia verso le elezioni, con il governo Gentiloni assai amico di Sky ancora in sella ma che sarà spazzato via poche settimane dopo, dopo due aste naufragate per le offerte lunari del gruppo di Murdoch e di Mediaset, la Lega Calcio affida la Serie A all’intermediario spagnolo Mediapro per 1,05 miliardi di euro. Dietro questa scelta i presidenti delle società, padroni del pallone, pensano ad un aumento degli affari, preparano addirittura il lancio di quello che è un sogno per loro: il futuro canale della Lega Calcio. Per Sky è uno smacco. In Italia, invece, sembra essere arrivata più concorrenza, altro che monopolio assoluto di Sky. E non va bene. Parte così l’attività di lobbing. Come fare per produrre ammuina? Come far togliere a Mediapro i diritti legittimamente acquisiti? In Lega nasce un fronte di società anti-Mediapro. Non ci vuole molto. Sky ha molti argomenti da spendere sul mercato. I rapporti con la Juve. Il ruolo di Federico Ferri, direttore di Sky Sport, già bordocampista delle partite della Juve. Le gite in barca di altissimi dirigenti Sky con presidenti importanti della serie A. I rapporti di affari di altri presidenti con altri brand di Sky. Il ruolo della potente direttrice del telegiornale di Sky Tg24, Sarah Varetto, messo al servizio della struttura Sky che si sta occupando di far perdere i diritti tv a mediapro
C’è poi anche la necessaria copertura politica del Coni, quella assicurata da Giovanni Malagò, compagno di tante vacanze e partite a golf con esponenti di vertice di Sky. Mentre tutto ciò accade, Mediapro è sicura che nulla può accadere. I Catalani pensano di essere entrati in affari in un paese normale, dove le regole sono regole per tutti. E invece l’ostruzionismo a Mediapro rimette tutto in discussione. Quasi per incanto. Il resto lo fanno gli avvocati di Sky capitanati di Luca Sanfilippo che si avvale spesso anche di studi legali esterni tra i migliori in Italia. I soldi ci sono. L’affare è importante, non bisogna lesinare risorse. Così i legali trovano spazi per insinuare dubbi, perplessità, bloccare accordi, fermare il tempo, evidenziare problemi inestricabili, fare ricorsi, controricorsi e compagnia cantando. Manca solo un tassello per fare un buon lavoro: chiudere uno sbocco naturale agli spagnoli che per trasmettere le partite hanno bisogno di un partner in Italia con una struttura pronta e funzionale. Per il management di Sky non c’è alcun problema. Si fa un accordo con Premium di Mediaset. Cioè Murdoch e Berlusconi che per anni si sono scannati trovano subito un accordo commerciale su più livelli. Si scambiano canali di cinema. E si giurano amore, non eterno ovviamente, ma solo per far fuori i catalani di Mediapro. Tra febbraio e giugno 2018, Mediapro si incaglia su fideiussioni, denaro, cavilli, cause, attacchi politici. Insomma Mediapro viene di fatto espulsa. E siccome siamo a giugno bisogna fare presto, deve partire il campionato e dare i soldi alle società che devono investire sul mercato calciatori. La Lega Calcio, così, cambia idea su tutto: niente più canale di proprietà, niente più asta ma trattative private. E indovinate chi si aggiudica i diritti del calcio in tv? La Serie A viene spacchetta. A Sky sette partite a settimana. A Perform, la multinazionale che controlla Dazn, vanno le altre 3.
La Lega sempre accusata assieme ai suoi presidenti di ingordigia invece di oltre un miliardo di Mediapro incassa 973 milioni di euro a stagione (Circa 780 da Sky e 193 da Dazn). Con una differenza non proprio banale: ieri Mediaset offriva le otto squadre con più tifosi di A e Sky il campionato completo. Oggi il tifoso è fregato. Se vuole vedere l’intero campionato deve fare due abbonamenti (Sky e Dazn). Come superare anche questa ennesima doccia gelata per le tasche dei tifosi che guardano in tv le partite? Con uno stratagemma. Sky si mangia Dazn, offre agli abbonati le tre partite mancanti per 7,99 al mese anziché 9,99. Perform è d’accordo e si accontenta perché ha l’esigenza di raggiungere un pubblico numeroso. Sky ricambia il favore acquistando una consistente quantità di utenze Dazn che poi dovrà rivendere ai suoi clienti. Un giro di soldi enorme, un giro di personale tecnico e giornalistico strano che consente alle tv di Murdoch di comportarsi da monopolista in un Paese in cui pare sia vietato per legge essere monopolisti. Ah, dimenticavamo il capitolo più importante di questa partita: Mediaset. La domanda è: che fine ha fatto Premium? Che fine hanno fatto i dipendenti di Premium? Che fine hanno fatto quelli della rete vendite degli abbonamenti Premium? Passati a Dazn e a Sky. Andati a Mediaset. Oppure ancora a Mediaset o in società dell’universo Mediaset ma vendono abbonamenti per Sky. Insomma un guazzabuglio. Sono cose strane che accadono sotto il sole, sotto gli occhi di tutti in un Paese dove le regole si applicano agli altri ma si interpretano per gli amici. L’unica cosa certa è che a pagare non è Pantalone ma i tifosi. Quest’anno la bolletta per i malati di calcio è altissima. E forse non tutti se la possono permettere e non tutti si faranno spennare.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.