Juventus – ndrangheta e suicidio Bucci, il procuratore di Cuneo fa riesumare il cadavere. Primo interrogato sarà Alessandro D’Angelo: security manager di Agnelli
La notizia era stata anticipata qualche settimana fa, il 30 ottobre per la precisione, dal programma di approfondimento giornalistico Report. Federico Ruffo, nella seconda puntata di una interessante e documentata inchiesta sulla presenza della organizzazione mafiosa denominata Ndrangheta nella curva dello Stadium di Torino, aveva fatto sapere che il nuovo procuratore di Cuneo, Onelio Odero, aveva le idee chiare su un fatto: la necessità di riesumare la salma di Raffaello Bucci, personaggio equivoco del mondo ultras juventino, informatore della polizia, legami con i servizi segreti e stabilmente in contatto con personaggi inquietanti della Ndrangheta che frequentavano e frequentano la curva juventina. Facciamo subito una premessa: i tifosi juventini sono una cosa, gli ‘ndraghetisti sono criminali.
L’autore dell’inchiesta. Federico Ruffo inviato di Report – Rai
Non c’è alcun sillogismo. Sono due mondi che come due rette non devono mai incontrassi, perchè quando si incontrano danno vita ad organizzazioni mafiose non tifose. Ciò premesso, il procuratore Odero, alla luce della inchiesta del giornalista Federico Ruffo, ha dato mandato alla Squadra mobile di Torino intanto di cercare di capire che fine hanno fatto alcuni effetti personali di Bucci: agendine, supporti informatici, documenti, telefoni ed altro. Altro filone da approfondire dell’inchiesta per ora a carico di ignoti, è in particolare il borsello dell’ultras, che sarebbe apparso sei giorni dopo il suicidio sulla scrivania del security manager della Juventus, Alessandro D’Angelo.
Chi è costui? Si occupa della sicurezza di Andrea Agnelli, è il responsabile della sicurezza allo Stadium e stando ad alcune intercettazioni telefoniche, messe in onda da Report, è colui che sapeva dell’ingresso allo Stadium di striscioni di insulti alla memoria dei morti di Superga e sghignazzando se ne vantava. Ed è certamente un personaggio chiave dell’entourage del presidente Andrea Agnelli. Per farvi comprendere quanta fiducia si ripone in lui, la Juventus l’ha incaricato anche di scortare ed attendere alla sicurezza del più grande capitale in possesso della società: Cristiano Ronaldo. La Juventus, com’è giusto che sia, non ha badato mai a spese per queste cose. Quando a fine luglio CR7 è sbarcato all’aeroporto di Torino Caselle su un aereo privato ad accoglierlo c’erano più addetti alla sicurezza che tifosi. Ronaldo sbarcò col figlio Mateo in braccio, e con lui c’erano anche la compagna Georgina e le due tate che accudiscono le figlie Eva e Alana Martina.
Alcuni cartelli fotografici dell’inchiesta di Federico Ruffo di Report andati in onda le scorse settimane e pubblicati sulla pagina web della trasmissione Rai. L’ultima foto, invece, è uno striscione di quelli che si trovano anche nel web di insulti ai morti di Superga ma che spesso si sono visti esposti allo Stadium
Cristiano all’epoca rimase ancora un po’ con nonna e sorella in Grecia. Indovinat chi c’era ad aspettarlo a Caselle? Alessandro D’Angelo. La famiglia-Ronaldo fu fatta salire su un pulmino dai vetri oscurati, e accompagnata nel villone stile Hollywood fuori Torino. A scortare il prezioso carico sul pullmino, sette jeep della Juventus, i cui movimenti venivano gestiti dal security manager. Ora la notizia della riesumazione del cadavere viene data anche da Panorama, che in una anticipazione avvisa che i pm di Cuneo, prima di Natale, cominceranno una serie di nuovi interrogatori. E, guarda caso, D’Angelo (che non risulta essere indagato) sarà uno dei primi a essere riascoltato. Perchè lui è, fors’anche suo malgrado, il trait d’union di questi due ambienti, così lontani e così diversi in apparenza: ultras e società. Lui è la figura opaca del security manager della società, un po’ anche braccio destro o persona che si occupa della sicurezza del presidente Andrea Agnelli e poi con quelle amicizie imbarazzanti, quelle telefonate intercettate vergognose quando si affronta la questione degli striscioni per insultare i “bovini” che poi sarebbero i calciatori del Torino morti nella tragedia di Superga.
La riesumazione è stata chiesta dalla famiglia di Bucci e dalla moglie, Gabriella Bernardis, una donna dopo la morte del suo compagno (ufficialmente suicidatosi) ha sempre detto “Raffaello non può essersi suicidato, è impossibile, non aveva queste pulsioni, era però terrorizzato, ma non so da che cosa”. Gabriella sa che suo marito non era uno stinco di santo. Gabriella ha sempre raccontato le mille cose strane che faceva il marito, i rapporti con la Juve e altri ambienti strani.
Quando l’8 luglio del 2016, Bucci, in circostanze ancora molto opache si sarebbe lanciato a Fossano dal viadotto del raccordo che porta all’autostrada Torino-Savona, la moglie sapeva che sarebbe sparito per un po’. Era terrorizzato perchè era stato sentito dalla Procura di Torino i 6 ottobre, due giorni prima, come persona informata dei fatti, per testimoniare sui rapporti tra il mondo degli ultras e la ‘ndrangheta. Bucci era uno dei leader dello storico gruppo ultras bianconero dei “Drughi” ed era un consulente esterno (assunto dalla ditta Telecontrol) della Juventus: in pratica un sostenitore ufficiale con funzioni di collegamento tra la tifoseria organizzata e il club. Bucci era anche uno che bazzicava come informatore i servizi segreti e la Digos della questura di Torino. Che cosa disse ai pm Bucci? Perchè aveva paura? La moglie vuole conoscere la verità. Questa donna è piegata dal dolore. Pensate che ha scritto alla procura di Torino e a quella di Cuneo per dire che sul conto corrente del marito ci sono 300mila euro di cui lei sconosce la provenienza. I verbali di interrogatorio di Bucci del 6 luglio sono stati già acquisiti dal nuovo procuratore di Cuneo, Onelio Odero, che ha chiesto la riesumazione del cadevere del presunto suicida.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.