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Pandemia e mafie, Brancaccio: difficile fare previsioni, ma se lo Stato lavora bene riduce anche il potere dei boss

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Non è facile comprendere come si stia muovendo la criminalità organizzata ai tempi dell’emergenza Coronavirus. Come e quanto si sia ridotto il suo raggio d’azione. Se guadagnerà terreno nei confronti dello Stato ad emergenza conclusa. Abbiamo posto queste ed altre rilevanti questioni a Luciano Brancaccio, docente di Sociologia urbana e Reti sociali, politiche e comunicative presso il Dipartimento di Scienze sociali della Federico II. Brancaccio è studioso e profondo conoscitore della criminalità organizzata. Sul tema ha pubblicato per Donzelli “Affari di camorra. Famiglie, imprenditori e gruppi criminali” nel 2015 e “I clan di camorra. Genesi e storia” nel 2017.

Luciano Brancaccio. Docente di Sociologia urbana e Reti sociali presso il Dipartimento di Scienze sociali della Federico II

Professor Brancaccio, come stanno cambiando i traffici criminali in tempi di pandemia?

Ci troviamo nel bel mezzo di questa fase di passaggio e quindi al momento non disponiamo di dati specifici sul fenomeno. Si può ipotizzare che vi sia una notevole riduzione delle attività illegali con cui la criminalità organizzata mantiene il controllo del territorio. Le estorsioni vengono meno con la chiusura di tutti gli esercizi commerciali. In calo anche l’attività di spaccio, sebbene alcuni quotidiani riportino in modo frammentario notizie di consegne a domicilio degli stupefacenti. E’ però evidente che l’isolamento comporta una drastica riduzione dei traffici che in vario modo riguardano la criminalità organizzata di tipo camorristico.

Crede che le mafie riusciranno, offrendo servizi e apparenti benefici, ad accrescere il proprio consenso sociale nei confronti delle sacche più disagiate della popolazione?

Ci sono diversi scenari che possiamo provare a delineare, anche di segno opposto. Il primo scenario porterebbe ad immaginare che i gruppi criminali riescano a guadagnare terreno, sfruttando l’impoverimento generale e la propria immensa liquidità per attirare nella propria orbita gravitazionale soggetti che prima erano esterni o ai margini dell’organizzazione. D’altra parte, in presenza di opportune misure di contrasto da un lato alla crisi economica e dall’altro alla criminalità organizzata, si potrebbe trasformare questa drammatica fase di passaggio in un’occasione per ridurre il potere della camorra. Anche questo è uno scenario possibile. Non c’è un esito predeterminato: se si concretizzerà il primo o il secondo dipenderà dalla capacità di intervento dello Stato.

 

Quale risposta dovrebbe fornire lo Stato per evitare di perdere ulteriore terreno nei confronti della criminalità organizzata?

Lo Stato dovrebbe produrre un’importante svolta keynesiana. Dovrebbe cioè spendere in deficit, questo è ormai chiaro a tutti, anche ai più strenui difensori del rigore finanziario. Non c’è altra scelta che quella di fare investimenti robusti, sia in infrastrutture, sia in misure di sostegno all’economia, alle piccole e medie imprese. In questo senso lo Stato potrebbe contendere alla criminalità organizzata lo spazio aperto da questa crisi; ha gli strumenti per farlo.

Un’occasione per ripensare il sistema economico nel suo complesso…

Si va inevitabilmente in quella direzione. Si tratta solo di capire se ci andremo col freno a mano tirato o in maniera più decisa. Gli studiosi concordano sul fatto che per contrastare in maniera seria le organizzazioni criminali, riducendo tangibilmente il loro potere, abbiamo bisogno di quello che si definisce un “Piano Marshall”: grossi investimenti che incidano sulla possibilità di fare impresa sui territori in maniera legale, a cominciare dai piccoli esercizi e dalle piccole attività produttive. Servono misure di sostegno al reddito, politiche sociali capaci di contrastare la povertà e il degrado urbanistico, risanando quartieri dove la qualità della vita è insoddisfacente. Questa crisi può anche essere vista come una finestra di opportunità per una svolta delle politiche di intervento in campo economico, sociale, urbanistico.

Qual è la sua opinione riguardo a ciò che sta accadendo nelle carceri? Le rivolte hanno provocato morti, evasioni di massa e danni per milioni di euro. Adesso si parla di provvedimenti svuota carceri.

E’ un problema molto serio: le carceri sono un luogo di assembramento naturale in cui è impossible attuare misure di distanziamento sociale. D’altronde, le carceri italiane devono fare i conti con un problema atavico di sovraffollamento delle strutture. Secondo me, bisogna prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di provvedimenti che consentano, laddove possibile e solo per i condannati per reati di minore entità, misure alternative alla detenzione. Se l’epidemia si diffonde nelle carceri il problema diventa molto serio.

Intravede rischi per l’ordine democratico con la possibilità che sia messo in discussione da spinte centrifughe e da gruppi che provino a destabilizzare lo Stato in questo momento di crisi con l’uso della violenza?

E’ un rischio sempre presente nella democrazia, ancor di più nel contesto italiano che, da un po’ di tempo a questa parte, vede crescere anche all’interno del sistema politico posizioni che si ispirano a modelli autoritari, facendo leva su sentimenti diffusi di ansia e paura. Su questo punto però sono fiducioso. Credo che le nostre istituzioni stiano reggendo, mostrando solidità. Allo stato attuale sono ottimista perché abbiamo istituzioni solide e anche una consapevolezza diffusa nella popolazione sulla preziosità dell’assetto democratico.

Com’è stata affrontata secondo lei questa crisi epocale dal nostro Paese?

Io credo che, al netto di ritardi, errori ed incomprensioni fra i diversi livelli istituzionali, sia stata affrontata in maniera positiva. Basti pensare a come hanno invece reagito altri Paesi che hanno mostrato, pur in presenza di evidenze rappresentate dal caso italiano, un ritardo ben più grave del nostro. Paesi più avanzati dal punto di vista economico, hanno mostrato efficienza non superiore alla nostra. Grandi potenza come Inghilterra o Stati Uniti, hanno palesato un’incapacità nell’affrontare l’emergenza. Lo hanno fatto con molto ritardo applicando poi lo stesse misure che stiamo applicando qui. Erano partiti minimizzando il problema e poi se lo sono ritrovati in casa. L’Italia non ha sfigurato.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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