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Ondate di calore sempre più lunghe nell’emisfero Nord

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Gli scenari che si sono visti ripetutamente nelle scorse settimane, con ondate di calore che hanno flagellato tutto l’emisfero Nord dagli Usa al Giappone, passando per la Francia e l’Italia, sono destinati a peggiorare se non si frena il riscaldamento globale, mantenendolo sotto la soglia di sicurezza indicata dagli esperti. A lanciare l’allarme e’ lo studio pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, secondo il quale, se le temperature medie aumenteranno di due gradi, si andra’ verso un allungamento delle ondate di calore e dei giorni consecutivi di pioggia torrenziale. Nello studio i ricercatori della Humboldt University di Berlino hanno elaborato diversi modelli matematici per stimare l’effetto di un aumento della temperatura media mondiale di 1,5 gradi, ossia l’obiettivo indicato dagli accordi di Parigi, e di 2 gradi sulla lunghezza dei periodi di meteo estremo. E’ emerso che con l’aumento di 2 gradi il rischio che nella zona temperata dell’emisfero Nord ci siano ondate di calore lunghe oltre due settimane potrebbe aumentare del 4%, con una punta del 10% negli Usa, mentre la probabilita’ di avere piu’ giorni consecutivi di piogge torrenziali potrebbe salire del 26%.

“Il meteo estremo diventera’ piu’ persistente, con i periodi caldi e secchi e i giorni consecutivi di piogge torrenziali che aumenteranno”, rileva il primo autore della ricerca, Peter Pfleiderer. “L’impatto su salute, ecosistemi, agricoltura ed economia potranno aumentare significativamente con la persistenza di queste condizioni”. Se si riuscira’ a limitare l’aumento a 1,5 gradi, sottolinea lo studio, invece la gran parte degli effetti aggiuntivi non si verificheranno. Le prime conseguenze della ‘febbre del pianeta’, sottolineano gli autori della ricerca, si stanno gia’ vedendo in questi ultimi anni, con record di caldo battuti ripetutamente in tutto l’emisfero. Anche le cronache di questi ultimi giorni lo confermano, con il Giappone che ha visto oltre 100 morti per il caldo nella sola Tokyo. Secondo l’Istituto medico legale, nei 23 comuni della capitale, tra il primo luglio e il 18 agosto il numero dei morti ha raggiunto quota 101, il 90% dei quali con un’eta’ superiore ai 65 anni.

L’Agenzia meteorologica giapponese (Jma) ha riferito che per 24 giorni consecutivi, a partire dal 26 luglio, le temperature hanno sempre superato i 31 gradi, con le medie in agosto che hanno sfiorato i 35 gradi: si tratta dell’estate piu’ calda dal 1876, da quando sono iniziate le rilevazioni ufficiali. Luglio 2019, ha reso noto l’ente degli Stati Uniti per l’Atmosfera e gli Oceani (Noaa) pochi giorni fa, e’ stato il mese piu’ caldo mai registrato nel mondo negli ultimi 140 anni, con una temperatura media globale di 0,95 gradi sopra la media del XX secolo. Il grande caldo ha interessato in questa estate anche i Paesi del Nord Europa, come in Scandinavia e con la Francia che ha battuto tutti i record in molte citta’ settentrionali come Rennes, dove per la prima volta si sono registrati 40 gradi

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Copernicus, marzo 2024 il mese più caldo mai registrato

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Il marzo del 2024 è stato il mese di marzo più caldo mai registrato. Lo rende noto il servizio meteo della Ue Copernicus. La temperatura media globale il mese scorso è stata di 14,4°C, superiore di 0,73°C rispetto alla media del trentennio 1991 – 2020 e di 0,10°C rispetto al precedente record di marzo, quello del 2016. Il mese inoltre è stato di 1,68°C più caldo della media di marzo del cinquantennio 1850 – 1900, periodo di riferimento dell’era pre-industriale. Secondo Copernicus, il marzo 2024 è il decimo mese di fila che si classifica come il più caldo mai registrato.

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Ecdc-Efsa, rischio diffusione dell’aviaria su larga scala

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Si alza il livello di attenzione sull’influenza aviaria da virus A/H5N1. Dopo tre anni che l’agente patogeno circola in maniera particolarmente sostenuta tra uccelli selvatici e di allevamento, infettando anche mammiferi ed espandendo la sua area di diffusione, da poco più di una settimana gli occhi sono puntati sugli Stati Uniti, dove si segnalano infezioni in allevamenti di mucche da latte. Al momento sono interessati una dozzina di allevamenti dislocati in cinque stati (Texas, Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho). Il primo aprile, poi, i Centers for Disease Control and Prevention hanno diffuso la notizia che anche un uomo ha contratto l’infezione; le sue condizioni sono buone.

Ad oggi si ritiene che sia gli animali sia l’uomo abbiano contratto l’infezione attraverso il contatto con uccelli infetti. Secondo le autorità americane questi casi non cambiano il livello di rischio, che resta basso per la popolazione generale. Tuttavia, i segnali di allarme si moltiplicano. In un rapporto pubblicato mercoledì, l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) e la European Food Safety Authority (Efsa), avvertono: “se i virus dell’influenza aviaria A/H5N1 acquisissero la capacità di diffondersi tra gli esseri umani, potrebbe verificarsi una trasmissione su larga scala”.

Fino a oggi, le infezioni nell’uomo sono poche (circa 900 dal 2003) e del tutto occasionali. Non ci sono prove di trasmissione tra mammiferi, né da uomo a uomo. Tuttavia, la congiuntura invita alla massima attenzione. In piena pandemia, nel 2020, è comparsa una nuova variante di virus A/H5N1 (denominata 2.3.4.4b) che in breve è diventata dominante. Da allora, sono aumentati il “numero di infezioni ed eventi di trasmissione tra diverse specie animali”, si legge nel rapporto. Questi continui passaggi tra animali e specie diverse aumentano le occasioni in cui il virus può mutare o acquisire porzioni di altri virus che lo rendano più adatto a infettare i mammiferi. In realtà A/H5N1 ha già compiuto dei passi in questa direzione.

Ha imparato a moltiplicarsi in maniera più efficace nelle cellule di mammifero e a sviare alcune componenti della risposta immunitaria. Ciò gli ha già consentito negli ultimi anni di colpire un’ampia gamma di mammiferi selvatici e anche animali da compagnia, come i gatti. Anche i fattori ambientali giocano a suo favore: i cambiamenti climatici e la distruzione degli habitat, influenzando le abitudini degli animali e intensificando gli incontri tra specie diversa, fanno crescere ulteriormente le probabilità che il virus vada incontro a modifiche.

Nonostante ciò, al momento non ci sono dati che indichino che A/H5N1 abbia acquisito una maggiore capacità di infettare l’uomo. Tuttavia, se questa trasformazione avvenisse saremmo particolarmente vulnerabili. “Gli anticorpi neutralizzanti contro i virus A/H5 sono rari nella popolazione umana, poiché l’H5 non è mai circolato negli esseri umani”, precisano le agenzie. Per ridurre i rischi Ecdc ed Efsa invitano ad alzare la guardia, rafforzando le misure di biosicurezza negli allevamenti, limitando l’esposizione al virus dei mammiferi, compreso l’uomo, e intensificando la sorveglianza e la condivisione dei da

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Da 20 anni aria più pulita in Europa, ma non basta

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Da 20 anni a questa parte si respira un’aria più pulita in Europa, ma nonostante ciò la maggior parte della popolazione vive in zone in cui le polveri sottili (PM2.5 e PM10) e il biossido di azoto (NO2) superano ancora i livelli di guardia indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: il Nord Italia, in particolare, è tra le regioni con le concentrazioni più alte. Lo dimostra uno studio pubblicato su Nature Communications dall’Istituto di Barcellona per la salute globale (ISGlobal) e dal Centro nazionale di supercalcolo di Barcellona (Bsc-Cns). I ricercatori hanno sviluppato dei modelli di apprendimento automatico per stimare le concentrazioni giornaliere dei principali inquinanti atmosferici tra il 2003 e il 2019 in oltre 1.400 regioni di 35 Paesi europei, abitate complessivamente da 543 milioni di persone. Per lo studio sono stati raccolti dati satellitari, dati atmosferici e climatici e le informazioni riguardanti l’utilizzo del suolo, per ottenere una fotografia più definita rispetto a quella offerta dalle sole stazioni di monitoraggio. I risultati rivelano che in 20 anni i livelli di inquinanti sono calati in gran parte d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il PM10 (con un calo annuale del 2,72%), seguito da NO2 (-2,45%) e dal PM2.5 (-1,72%).

Le riduzioni più importanti di PM2.5 e PM10 sono state osservate nell’Europa centrale, mentre per NO2 sono state riscontrate nelle aree prevalentemente urbane dell’Europa occidentale. Nel periodo di studio, il PM2.5 e il PM10 sono risultati più alti nel Nord Italia e nell’Europa orientale. Livelli elevati di NO2 sono stati osservati nel Nord Italia e in alcune aree dell’Europa occidentale, come nel sud del Regno Unito, in Belgio e nei Paesi Bassi. L’ozono è aumentato annualmente dello 0,58% nell’Europa meridionale, mentre è diminuito o ha avuto un andamento non significativo nel resto del continente. Il complessivo miglioramento della qualità dell’aria non ha però risolto i problemi dei cittadini, che continuano a vivere per la maggior parte in zone dove si superano i limiti indicati dall’Oms per quanto riguarda il PM2.5 (98%), il PM10 (80%) e il biossido di azoto (86%). Questi risultati sono in linea con le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente per 27 Paesi dell’Ue, basate sui dati provenienti dalle stazioni urbane. Inoltre, nessun Paese ha rispettato il limite annuale di ozono durante la stagione di picco tra il 2003 e il 2019.

Lo studio ha infine esaminato il numero di giorni in cui i limiti per due o più inquinanti sono stati superati simultaneamente. E’ così emerso che nonostante i miglioramenti complessivi, l’86% della popolazione europea ha sperimentato almeno un giorno all’anno con sforamenti per due o più inquinanti: le accoppiate più frequenti sono PM2.5 con biossido di azoto e PM2.5 con ozono. Secondo il primo autore dello studio, Zhao-Yue Chen, “sono necessari sforzi mirati per affrontare i livelli di PM2.5 e ozono e i giorni di inquinamento associati, soprattutto alla luce delle crescenti minacce derivanti dai cambiamenti climatici in Europa”.

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