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Omicidio Cucchi, l’inchiesta sui depistaggi manda a processo 8 carabinieri. L’Arma è parte lesa nel processo

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Un altro processo, il quarto, per l’ultimo filone di inchiesta sulla vicenda Cucchi: stavolta alla sbarra andranno otto carabinieri, tutti componenti della catena di comando che secondo gli inquirenti avrebbe depistato le indagini per accertare le cause sulla morte di Stefano. Tra gli imputati ci sono anche alti ufficiali dell’Arma, che avrebbero orchestrato il tentativo di insabbiamento della verita’ sulla morte del geometra romano, avvenuta nel 2009.

Stefano Cucchi

Per Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, si tratta di un “momento storico” ed e’ “tutto partito da Casamassima”, il carabiniere che denuncio’ per primo le presunte irregolarita’ commesse. In aula di fronte al Gup, l’imputato al processo con il piu’ alto grado nell’Arma, l’allora comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, ha tirato in ballo il generale Vittorio Tomasone, all’epoca comandante provinciale di Roma rendendo dichiarazioni spontanee ora agli atti del processo. Casarsa ha fatto riferimento alle note mediche presenti nella sua relazione del 30 ottobre: un documento sotto l’attenzione degli inquirenti, perche’ all’epoca anticipava le conclusioni di esperti medici legali che ancora dovevano essere nominati.

“Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009 – ha spiegato Casarsa – , quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti”.

E ancora: “Al comando provinciale il contatto che io avevo come comandante del gruppo era con il comandante provinciale. Non ho mai avuto contatti ne’ con i magistrati ne’ con i medici legali in merito a questa vicenda”.

Ilaria Cucchi. La sorella di Stefano Cucchi 

Ad andare a processo ci sono altri sette imputati: si tratta del colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma, accusato di omessa denuncia; Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, gia’ comandante della Compagnia Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all’epoca in servizio a Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, gia’ comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo e il carabiniere Luca De Cianni.

Nel procedimento l’Arma dei carabinieri si è costituita parte lesa.

Sulla vicenda del trentenne geometra, morto il 22 ottobre di dieci anni fa, si apre un quarto processo: dopo quello a carico di alcuni agenti della penitenziaria (tutti assolti), e’ in corso quello di secondo grado ai medici dell’ospedale Sandro Pertini e quello davanti alla prima Corte d’Assise che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Proprio nel corso di questo procedimento e’ emersa, grazie anche al racconto di uno degli imputati, il carabiniere Francesco Tedesco, la verita’ relativa al pestaggio di Cucchi e alla falsificazione di una serie di documenti sullo stato di salute del geometra dopo l’arresto. Per l’accusa i depistaggi partirono proprio da Casarsa e a cascata furono ‘messi in atto’ dagli altri secondo i vari ruoli di competenza.

Per i pm sei indagati “avrebbero attestato il falso in una annotazione di servizio, datata 26 ottobre 2009, relativamente alle condizioni di salute di Cucchi”, arrestato dai carabinieri della stazione Appia e portato nelle celle di sicurezza di Tor Sapienza, tra il 15 e il 16 ottobre del 2009.

Per i magistrati di piazzale Clodio il falso fu confezionato “con l’aggravante di volere procurare l’impunita’ dei carabinieri della stazione Appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso”.

Ilaria Cucchi. La sorella del ragazzo ucciso da sempre si batte per la verità

In una seconda nota, con la data truccata del 26 ottobre, si attestava falsamente che Cucchi riferiva di essere dolorante per il freddo e la magrezza, secondo i carabinieri. Le accuse tirano in ballo anche il colonnello Sabatino il quale, pur avendo accertato che erano false le due annotazioni “omise di presentare una denuncia”.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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