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Lo schiaffo di Obama a Trump, ‘non sa quello che fa’

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 Scontro senza precedenti e soprattutto senza esclusione di colpi tra Barack Obama e Donald Trump, con l’ex presidente che per la prima volta accusa pubblicamente il tycoon di essere un incompetente e quest’ultimo che evoca addirittura il carcere per il suo predecessore e per colui che lo dovra’ sfidare nelle urne il prossimo novembre, Joe Biden. Trump “non sa quello che fa”, ha attaccato per primo Obama, sferrando un sonoro schiaffo al successore e troncando cosi’ la tradizione secondo cui un presidente in carica non viene mai criticato da chi lo ha preceduto alla Casa Bianca. Una regola a cui Obama finora si era scrupolosamente attenuto, sottraendosi per tre anni alla luce dei riflettori e suscitando qualche critica anche da chi, nella base democratica, avrebbe voluto un ruolo piu’ attivo dell’ex presidente in vista delle elezioni del 3 novembre. Ma ora, a meno di sei mesi dal voto e nel pieno di una crisi sanitaria ed economica senza precedenti, evidentemente non e’ piu’ tempo di restare dietro le quinte. Davanti a 1,4 milioni di contagiati in tutta America e a quasi 90 mila morti non c’e’ piu’ spazio per il fair play. Anche perche’ gran parte di quelle vittime, oltre 1.200 nelle ultime 24 ore, appartengono alle comunita’ piu’ povere e disagiate, come i neri d’America. Ecco perche’ Obama ha scelto di non tacere piu’ e per la prima volta ha sollevato pubblicamente le sue critiche parlando in un paio di eventi online per festeggiare i neolaureati del 2020. “Non fanno neanche finta di sapere quello che fanno. Questa pandemia alla fine ha completamente alzato il sipario sul fatto che tantissimi uomini al comando non sanno cosa fare. E molti di loro non fingono nemmeno”. L’unica concessione al politicamente corretto Obama l’ha fatta non citando mai direttamente per nome il presidente. Ma il suo resta un atto di accusa pesantissimo, dopo le parole rubategli giorni fa durante una conversazione privata, quando defini’ la gestione della crisi da parte di Trump “disastrosa”. La controffensiva di Trump – dopo un tweet in cui a caratteri cubitali ha scritto ‘OBAMAGATE!’ rilanciando le accuse di corruzione al predecessore – e’ arrivata in un’intervista esplosiva su Fox News, in cui Obama e Biden sono stati messi all’indice come i responsabili del “piu’ grande scandalo della storia americana”, il Russiagate. “C’e’ gente che dovrebbe andare in galera per questo e se tutto va nel verso giusto molte persone pagheranno”, ha ringhiato Trump, aggiungendo: “Se io fossi un democratico molti sarebbero in carcere da tempo”. La storia e’ quella del presunto tentativo di farlo fuori subito dopo la vittoria elettorale del 2016, con l’accusa ad Obama di aver creato ad arte un piano contro il futuro ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn allo scopo di alimentare il Russiagate. L’ex presidente viene in particolare accusato di aver manipolato le intercettazioni delle telefonate tra Flynn e l’ex ambasciatore russo a Washington: “Peggio del Watergate”, aveva twittato di recente il tycoon, che ha intensificato la sua campagna contro Obama, visto come colui che puo’ dare la spinta decisiva al candidato presidenziale democratico, Joe Biden. Ma le ruggini tra Trump e Obama risalgono indietro negli anni, soprattutto al periodo in cui il tycoon si fece portavoce della teoria dei cosiddetti ‘birther’ secondo cui Obama (il cui padre era keniota) non sarebbe nato in America ma in Africa. E piu’ volte Trump chiese di vederne il certificato di nascita. Un’insinuazione a cui l’allora presidente Obama rispose dileggiando un’imbarazzatissimo tycoon durante la cena dei corrispondenti della Casa Bianca del 2011, mandando in onda tra le risate del pubblico il video della sua presunta nascita: uno spezzone del film ‘Il Re Leone’. Un’umiliazione che Trump, da sempre geloso dei livelli di popolarita’ ancora oggi detenuti dal suo predecessore, non ha mai dimenticato.

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L’Australia esorta i suoi cittadini a lasciare Israele

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Il governo australiano ha esortato i suoi cittadini in Israele a “andarsene, se è sicuro farlo”. “C’è una forte minaccia di rappresaglie militari e attacchi terroristici contro Israele e gli interessi israeliani in tutta la regione. La situazione della sicurezza potrebbe deteriorarsi rapidamente. Esortiamo gli australiani in Israele o nei Territori palestinesi occupati a partire, se è sicuro farlo”, secondo un post su X che pubblica gli avvisi del dipartimento degli affari esteri e del commercio del governo australiano.

Il dipartimento ha avvertito che “gli attacchi militari potrebbero comportare chiusure dello spazio aereo, cancellazioni e deviazioni di voli e altre interruzioni del viaggio”. In particolare è preoccupato che l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv “possa sospendere le operazioni a causa di accresciute preoccupazioni per la sicurezza in qualsiasi momento e con breve preavviso”.

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Ian Bremmer: l’attacco di Israele è una sorta di de-escalation

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C’è chi legge una escalation e chi invece pensa che sia una de escalation questo attacco israeliano contro l’Iran. “È un allentamento dell’escalation. Dovevano fare qualcosa ma l’azione è limitata rispetto all’attacco su Damasco che ha fatto precipitare la crisi”. Lo scrive su X Ian Bremmer, analista fondatore di Eurasia Group, società di consulenza sui rischi geopolitici.

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Usa bloccano bozza su adesione piena Palestina all’Onu

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Gli Usa hanno bloccato con il veto la bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che raccomandava l’adesione piena della Palestina alle Nazioni Unite. Il testo ha ottenuto 12 voti a favore (Algeria, Russia, Cina, Francia, Guyana, Sierra Leone, Mozambico, Slovenia, Malta, Ecuador, Sud Corea, Giappone), 2 astensioni (Gran Bretagna e Svizzera) e il no degli Stati Uniti.

La brevissima bozza presentata dall’Algeria “raccomanda all’Assemblea Generale che lo stato di Palestina sia ammesso come membro dell’Onu”. Per essere ammessa alle Nazioni Unite a pieno titolo la Palestina doveva ottenere una raccomandazione positiva del Consiglio di Sicurezza (con nove sì e nessun veto) quindi essere approvata dall’Assemblea Generale a maggioranza dei due terzi.

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