La mancata ripresa della scuola pubblica in Africa subsahariana a causa del Covid-19, rappresenta una catastrofe umanitaria di proporzioni inaudite. Ebbene, nel momento in cui cerca di fare il suo difficile corso il nostro appello per il riavvio delle lezioni, con l’aiuto di Stati, organismi, fondazioni, affinché milioni di bambini africani riescano a non perdere un intero anno scolastico, apprendiamo che la Scuola Italiana di Asmara ha chiuso in questi giorni i battenti.
Un Istituto Omnicomprensivo, come si dice col linguaggio della burocrazia, che andava dalla Scuola Primaria alla Scuola Media, fino alla Scuola Secondaria Superiore, articolata in un settore tecnico (con due indirizzi, economico e tecnologico) e in un Liceo Scientifico. Insomma all’Istituto si apprendevano le derivate, gli integrali, la geometria analitica e lo studio di funzione, la finanza e il marketing, la scienza delle costruzioni, la tutela dell’ambiente, l’organizzazione del territorio. Il tutto in lingua italiana, con inglese obbligatorio e opzionalità per lingue come l’arabo e il francese.
Una Scuola così rappresenta un tesoro senza pari. E’ la cooperazione che vince. Un crocicchio di culture. Una fabbrica di conoscenze. Una fucina di professionalità e di competenze senza eguali nel Corno d’Africa, alservizio di un Paese che possiede una straordinaria intelligenza collettiva, eppure è atrocemente mutilato nella sua voglia di crescere attraverso l’esercizio delle libertà democratiche e lo sviluppo economico. Erappresenta, anche, dal 1903, il segno tenutosaldo nel tempo, che il colonialismo italianopoteva essere temperato nelle sue colossali ottusità, da qualche buon progetto, poi recuperato dalla Repubblica.
Hovisitato la Scuola a novant’anni dalla sua nascita, esattamente neigiorni incantati in cui il referendum sanciva l’autonomia politica dell’Eritrea dall’Etiopia, confermando nelle urne quell’irrinunciabile spirito di indipendenza che un intero popoloin armi aveva già mostrato in anni e anni di guerra. Quell’incontro all’insegna del sapere,con una città gioiosa, fiduciosa nell’avvenire di pace e di prosperità che era pronta a costruire, è uno dei momenti alti della mia esperienza africana. Anche se poi, insiemea tanti altri, ho dovutoassistere impotente alla degradazione istituzionaledel Paese, allo svaporamento dei sogni che il giovane capo della guerriglia IsaiasAfewerki avevaportato, e che l’autocrate trasformato dal potere in un cupo e quanto mai vecchiodittatore, ha poi tolto al suo popolo.
Amo l’Eritrea, inutile che ci giri attorno. E amo l’Asmara. Non solo per l’”idillio geografico” che essa rappresenta in rapporto all’invivibile fornace del Mar Rosso, quel sole che sull’altipiano “dolcemente carezza” invece di frustare rudemente come nelle bassure tra Massaua e Assab. Né solo perché sono nato in una piccola città di provincia di cui Asmara mi restituisce l’atmosfera umana che fu l’incanto della mia fanciullezza. E neppure perché ha saputo pilotare, nello spirito dei suoi abitanti, l’avventura ambigua di una città di fondazione coloniale che diventa, prima al mondo, Patrimonio dell’Umanità quale “modernist city” africana (Unesco, 2017). Tutto questo insieme, si capisce, che tuttavia va ad innestarsi sul fatto che ho colto in quella città un simbolo di libertà politica e di emancipazione civile; ho colto nei volti dei ragazzi che facevano funzionare gli uffici pubblici, le banche, l’aeroporto, nell’occhio cieco dei loro mitra a presidio delle frontiere con l’Etiopia e il Sudan, la concreta speranza di un futuro di pace, di benessere, di giustizia.
Si tratta di una delle più brutte sconfitte politiche dell’Italia nelle relazioni con le sue ex-colonie del Corno. Si sapeva che le cose, a proposito della Scuola, non andavano bene tra i due Governi. Già da qualche anno. A nulla è servito l’impegno dell’esecutivo in carica, a cominciare da quello personale di Giuseppe Conte. La Scuola chiude. E ciò avviene nel momento peggiore perlastoria dell’educazione scolastica dell’Eritrea, con il Covid-19 incombente. Ma mi auguroche si trattisolo di una chiusura temporanea. E che la politica, la nostra diplomazia, sappiano ricomporre gli interessie le sensibilità per questo grande progetto: nel sorriso degli scolari, nella resilienza delle popolazioni, nel futuro stesso degli altipiani eritrei.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
“Siamo diventati una civiltà di gente che vuol vedere, non sente più, sente male, per mancanza di conoscenza, per ignoranza”. Polemico, anche se “felice di essere qui con i miei giovani musicisti dell’Orchestra Cherubini”, Riccardo Muti ieri sera al Teatro Pergolesi di Jesi, in provincia di Ancona, ha inaugurato le celebrazioni per i 250 anni dalla nascita (avvenuta nella vicina Maiolati) di Gaspare Spontini, con un concerto al termine del quale ha attaccato l’oblio in cui è caduta tanta parte del patrimonio musicale italiano. Un discorso molto politico, “anche se la politica dal podio non si fa”, diretto soprattutto “a chi ha in mano le sorti del nostro Paese” per chiedere più attenzione per la musica, lungo oltre 20 minuti, punteggiato dagli applausi del pubblico.
La musica italiana “ha dominato il mondo con Spontini a Berlino, Mercadante a Madrid, Cherubini a Parigi, Salieri e, ancora prima, Porpora e a Vienna, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo. I nostri compositori hanno fatto l’Europa, prima dei nostri politici ed economisti”. Muti ha elogiato le Marche, una regione che “ha dato i natali a tantissimi artisti, non solo nel campo dell’architettura e della pittura, ma anche della musica. Voi avete a distanza di pochi chilometri Giovan Battista Pergolesi (nato proprio a Jesi, ndr) e Spontini”. E ha elogiato le due città che “si stanno prodigando per sottolineare l’importanza di questi due giganti della musica”, ma “molte persone non sanno chi sono e questa è una vergogna per noi”. Perché “la musica italiana non è semplicemente l’espressione sguaiata di note acute tenute all’infinito, ma la nostra storia è una storia di nobili e grandi compositori”. Compositori che “hanno fatto l’Europa prima dei nostri politici ed economisti”.
“Pensate che Spontini era un re prima a Parigi e poi a Berlino – ha detto ancora Muti -, e nelle memorie di Wagner si legge che quando Spontini arrivò a Dresda per dirigere La Vestale scese da una carrozza principesca venendo da un’umile casa di Maiolati. Wagner s’inginocchia addirittura davanti a lui”. Due colossi della musica “dimenticati”: “Pergolesi era ammiratissimo da Bach, all’età di 26 anni muore lasciandoci dei capolavori incredibili”. Capolavori raramente eseguiti e lo stesso accade per La Vestale o l’Agnese di Hohenstaufen di Spontini o altre opere. “Va bene il ‘Vincerò’ che dura mezz’ora ed è anche piacevole – ha ironizzato il maestro – ma non rappresenta tutta la nostra musica”. E “se andate a vedere la partitura di Puccini, non esprime ‘ad libitum’ fino a quando tutti quanti, presi da frenetici orgasmi, urlano uau”. “Cosa è successo al nostro Paese? – si è chiesto Muti -. E’ successo che nelle grandi occasioni ci si veste bene, si compare nei palchi e poi si scompare? O dobbiamo metterci in testa che la musica e la storia della musica insegnata bene e portata alle nuove generazioni possa migliorare il futuro del nostro Paese?”.
Tutto queste però “non succede” e per questo il pubblico non sa più ascoltare. “Noi abbiamo in debito verso il nostro passato – si è accalorato -, abbiamo una storia infinita di bellezza e arte che molti ragazzi oggi non conoscono e che sta diventando solamente un’occasione di ascolto per alcuni privilegiati. Non sono un politico, ma con grande malinconia mi avvicino alla fine della vita perché noi non siamo più degni delle radici su cui abbiamo fatto spuntare fiori, o alberi o foglie”. “Verdi rimane il Michelangelo del musica e ha coperto tutto l’Ottocento”. E anche Puccini è rappresentativo di un certo periodo. Ma “quando Spontini scrive la Vestale, dentro c’è tutto quello che poi Wagner prenderà. Questo siamo e questo dovrebbero sapere quelli che guidano l’Italia e questo dovrebbero insegnare a scuola”.
La parola d’ordine è trasparenza. Quella chiesta a gran voce dall’industria culturale e creativa davanti allo sviluppo vertiginoso dell’intelligenza artificiale generativa (IA). L’appello è stato raccolto dall’Ue, che con l’AI Act, appena vidimato dal Parlamento europeo, sta provando a creare uno scudo a tutela di giornalisti, scrittori, musicisti, registi, chi vive insomma della propria creatività. Si parla di professioni che rischiano di essere travolte dalla nuova tecnologia alimentata dal petrolio dell’economia digitale: i dati. Le loro opere – canzoni, libri, reportage, film – sono impiegate sia per addestrare i cosiddetti modelli linguistici di grandi dimensioni, su cui si basano sistemi come ChatGPT, sia per creare opere derivate. Si può ritenere questo processo come una violazione del diritto d’autore? Secondo il New York Times la risposta è affermativa.
In un caso destinato a fare scuola, la Vecchia Signora in Grigio ha portato in tribunale Microsoft e OpenAI, la società nota per aver creato ChatGPT, accusandole di aver copiato e utilizzato illegalmente i suoi articoli per addestrare i modelli di IA. I due colossi tech non hanno rivelato pubblicamente la composizione dei dataset su cui viene istruita la nuova tecnologia. Ed è su questo che interviene l’AI Act. I sistemi come ChatGPT e i modelli su cui si basano dovranno, infatti, soddisfare determinati requisiti di trasparenza e rispettare le norme europee sul diritto d’autore durante le fasi di addestramento dei vari modelli.
“Un passaggio importante” per Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie) e di Confindustria Cultura Italia (Cci), secondo cui le richieste del mondo delle industrie culturali e creative “hanno trovato orecchie attente nel governo italiano e in modo trasversale tra gli europarlamentari che hanno votato a favore dell’AI Act”. “La trasparenza – ha evidenziato – è il requisito per poter analizzare criticamente gli output dell’IA e, per chi detiene i diritti, sapere quali opere sono utilizzate nello sviluppo di questi strumenti, se provengono da fonti legali e se l’uso è stato autorizzato”.
Ma la strada è ancora lunga. La legge europea è solo “un primo passo per far valere i propri diritti”, ha commentato un’ampia coalizione di organizzazioni dei settori creativi e culturali europei, esortando a mettere in pratica “queste importanti norme in modo significativo ed efficace”. A fare la differenza sarà l’attuazione della normativa, la definizione degli standard, ma anche la previsione di una policy a tutela del diritto d’autore che affronti ad esempio la questione della remunerazione dei detentori dei diritti per l’uso di opere coperte da copyright.
Dopo Pesaro per il 2024 e Agrigento per il 2025 è l’Aquila la città scelta come capitale italiana della cultura 2026. A proclamarla è stato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano nel corso della cerimonia che si è svolta a Roma, nella Sala Spadolini del ministero, alla presenza della giuria presieduta da Davide Maria Desario e composta da Virginia Lozito, Luisa Piacentini, Andrea Prencipe, Andrea Rebaglio, Daniela Tisi, Isabella Valente, e dei rappresentanti di tutte e dieci le città finaliste: oltre all’Aquila, Agnone (Isernia), Alba (Cuneo), Gaeta (Latina), Latina, Lucera (Foggia), Maratea (Potenza), Rimini, Treviso, Unione dei Comuni Valdichiana Senese (Siena). “L’Aquila è una città ricca di storia e di identità e merita certamente di essere capitale della cultura” dice parlando con i giornalisti Sangiuliano, che ricorda anche come la commissione sia “assolutamente autonoma e indipendente dalla mia persona”. Il ministro avrebbe voluto dare “questo riconoscimento a tutte le città che erano candidate, questo purtroppo non era possibile. Adesso studieremo un modo per coinvolgerle in questo momento”.
L’Aquila “si avvia a celebrare i 15 anni del terremoto – commenta il sindaco della città Pierluigi Biondi -. Essere capitale italiana della cultura non è un risarcimento, ma rappresenta un elemento attorno a cui ricostruire il tessuto sociale della nostra comunità”. La cultura “è un elemento fondante, è recupero dell’identità e proiezione nel futuro – aggiunge – . Le altre città finaliste saranno parte di questo percorso. Vi garantiamo che saremo all’altezza del compito che ci assegnate… viva l’Italia”. Il progetto presentato dal capoluogo abruzzese è intitolato ‘L’Aquila Città multiverso’ ed è “un ambizioso programma di sperimentazione artistica per la creazione di un modello di rilancio socio-economico territoriale a base culturale, capace di proiettarla verso il futuro seguendo i quattro assi della Nuova Agenda Europea della Cultura: coesione sociale, salute pubblica benessere. creatività e innovazione, sostenibilità socio-ambientale”, si legge nelle linee guida. “Siamo molto felici, è un altro segno di rinascita dell’Abruzzo – commenta Marco Marsilio, appena confermato alla presidenza della Regione -. Sapevamo di essere molto competitivi e che il dossier presentato era eccellente. La giuria lo ha riconosciuto”. Il progetto dell’Aquila “ci ha convinto per la sua qualità, ma anche per aspetti come il budget, la capacità di includere per tutto l’anno i territori e per il coinvolgimento dei giovani” spiega Davide Maria Desario, presidente della giuria. Ognuno dei progetti delle città finaliste “rappresenta l’emblema dell’Italia come vorremmo che fosse, l’Italia del fare”. Per questo Desario torna a lanciare la proposta (poi accolta dal ministro, ndr) “che oltre oltre al premio alla città vincitrice si integri il bando con un riconoscimento anche alle altre finaliste”. Fra le reazioni alla vittoria, prevalgono le congratulazioni da parte delle altre città finaliste ma si solleva anche qualche polemica.
“A pensar male si fa peccato ma, come dice l’adagio, spesso si indovina. O forse è solo un caso che, a pochi giorni, dalle elezioni regionali in Abruzzo il titolo sia stato conferito proprio a La città de L’Aquila?” si chiede in una nota il deputato del Pd Andrea Gnassi, ex sindaco di Rimini. Critico anche l’attuale sindaco della città romagnola Jamil Sadegholvaad che fa i complimenti a L’Aquila ma parla di “invasioni di campo preventive scomposte anche da parte di chi dovrebbe essere super partes” nella competizione. Il nostro auspicio “è che Rimini e la Romagna alluvionata possano essere Capitale italiana della cultura l’anno successivo – commenta il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini -, a partire proprio dall’alluvione senza precedenti del maggio 2023 da cui hanno saputo subito risollevarsi e ripartire”. Invece il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle del Molise Andrea Greco oltre a esprimere il rammarico per la sconfitta di Agnone (Isernia) che era tra le dieci finaliste, critica Bruno Vespa, che avrebbe dimostrato “una meno che sufficiente caratura giornalistica” per l’endorsement a L’Aquila che avrebbe fatto sulla tv pubblica alla vigilia della designazione: “E’ stato per lo meno spiacevole per non utilizzare altri termini”.