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La procura di Siracusa manda i medici su nave Gregoretti: c’è un solo bagno per 116 persone

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Un solo bagno per 116 migranti – alcuni con la scabbia – costretti da 5 giorni a bordo della Gregoretti, la nave della Guardia Costiera bloccata dal diktat del ministro dell’Interno Matteo Salvini nel porto militare di Augusta. E il procuratore di Siracusa Fabio Scavone convoca il comandante della motovedetta ed apre un’inchiesta per accertare le condizioni igienico-sanitarie a bordo. Il rischio che l’indagine possa prendere una piega analoga al caso Diciotti, quando a Salvini fu contestato il reato di sequestro di persona aggravato, inquieta il premier Giuseppe Conte, che segue con grande attenzione la vicenda, fortemente preoccupato che possa portare nuovi elementi di caos nella maggioranza. Mentre non arriva ancora la soluzione da Bruxelles cui il titolare del Viminale ha condizionato l’ok allo sbarco dei 116. “Contatti sono in corso”, e’ il refrain della Commissione che sta cercando Paesi disponibili. Tra questi si e’ fatta avanti la Germania. “Da un anno – ha ricordato il ministro dell’Interno Horst Seehofer – abbiamo dato la disponibilita’ ad accogliere una parte di rifugiati per ogni nave arrivata a Malta o in Italia. Quello che voglio evitare – ha sottolineato – e’ che ogni volta queste navi attendano anche 15 giorni davanti alle coste italiane prima che le condizioni dei migranti peggiorino e si faccia attraccare. Al vertice di Helsinki ho detto: ‘Matteo che senso ha questa procedura se poi alla fine la gente sbarca?'”. Al momento nessuno e’ iscritto nel registro degli indagati. Il procuratore Scavone, che ha sentito a lungo il comandante della Gregoretti, ha incaricato tre consulenti in malattie infettive di effettuare un’ispezione. “Stiamo verificando le condizioni delle persone a bordo, dopo l’esito dell’ispezione potremmo trarre conclusioni”. Ieri sera sono stati fatti scendere 15 minori. “Attualmente – ricorda il magistrato – vi sono quindi 116 persone a bordo che ad esempio utilizzano un solo bagno.

Alcuni lamentano dei fastidi fisici. Dobbiamo accertarne l’entita’”. Saliti a bordo carabinieri del Nas. E si muove anche il Garante dei detenuti, che ha inviato una lettera al comandante generale della Guardia costiera, amm. Giovanni Pettorino, per chiedergli “urgenti informazioni” sulle condizioni dei migranti e “sulle circostanze del negato sbarco”. La situazione delle persone a bordo, sottolinea Palma, si configura “come una privazione de facto della liberta’ personale”. Il Garante chiede “delucidazioni in relazione alla risposta o meno alla richiesta di un ‘posto sicuro'”. E’ il Viminale a dover indicare il ‘Pos’ (Place of safety), cosa che non ha ancora fatto, dopo due tappe a Lampedusa e a Catania prima di approdare ad Augusta. E, dunque, nell’eventuale accertamento per risalire alla catena di responsabilita’ per il mancato sbarco, la procura arrivera’ – come per la Diciotti, altra motovedetta della Guardia costiera tenuta a bagno per giorni nell’agosto scorso – a Salvini. Il quale peraltro e’ ‘reo confesso’ avendo detto pubblicamente: “non daro’ nessun permesso allo sbarco finche’ dall’Europa non arrivera’ l’impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave”. In una situazione analoga, il ministro fini’ nel registro degli indagati della procura di Agrigento. Ma la Giunta per le immunita’ del Senato – con il voto dei Cinquestelle – non concesse poi il via libera a procedere nei confronti di Salvini. Atto che provoco’ diversi mal di pancia nel Movimento.

E proprio questo preoccupa Conte, gia’ alle prese con continue tensioni tra gli alleati di Governo: nel caso di una nuova votazione in Giunta non e’ scontato un epilogo uguale a quello della Diciotti, fanno notare ambienti parlamentari. L’opposizione va all’attacco. “Impedire lo sbarco dei naufraghi della Gregoretti – dice Matteo Orfini (Pd)- non e’ solo un’offesa alla Guardia Costiera italiana e ai migranti, e’ un reato. Esattamente come per la Diciotti, si tratta di sequestro di persona. E tutto il governo ne e’ responsabile”. Per Federico Foraro (Leu) “ci troviamo di fronte a una palese e inaccettabile violazione delle convenzioni internazionali come fu per la Diciotti. Il ministro Toninelli si dimetta per incapacita’ nel difendere il personale della Guardia Costiera. Il presidente Conte non puo’ continuare a fare finta di nulla”.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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