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Salute

La mente del ricercatore, le tentazioni del professor Zangrillo e il peccato mortale dello scienziato

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Alberto Zangrillo è un medico rianimatore -di quelli che ti salvano la vita, voglio ricordare da subito- un primario ospedaliero, un professore ordinario, ossia ha la posizione di chi ha raggiunto il livello massimo in una carriera universitaria. In prima, durissima linea nella lotta personale e istituzionale al coronavirus, come si legge nel suo profilo curricolare anche con riferimento alle nuove specialità cliniche che si stanno costruendo attorno alle patologie pandemiche. Si occupa infatti di faccende come: “supporti avanzati al circolo e alla ventilazione”; “ventilazione non invasiva”; “terapie anticoagulanti alternative in terapia intensiva”. Riporto queste aree di intervento, tra le molte, non per pedanteria, ma per capire meglio di cosa stiamo effettivamente parlando. Indicazioni che un po’ ci intimoriscono, ma un po’ ci danno sollievo, perché testimoniano che c’è qualcuno che ne capisce, qualcuno in grado di aiutarci nel momento del bisogno. Quando non riesci a respirare più perché Covid 19 ha sparato un nugolo di maledetti microcoaguli nei polmoni. E per dire, anche, che siamo consapevoli della gratitudine che tutti noi dobbiamo al dottore e a persone che, come lui, si sono battute senza risparmio contro Covid 19. 

Lo scienziato e l’imprenditore. Qui Zangrillo è assieme a Flavio Briatore

 

No no, il dr. Zangrillo non è il mio medico né abita nel mio stesso palazzo. So molte cose di lui, e del dr. Galli e ovviamente del “decano” dr. Burioni e altri eccellenti scienziati, solo perché l’ho visto in televisione: sì avete inteso bene, quel mezzo arcaico che davamo per spacciato sotto la spinta dell’onda digitale, ma che a quanto pare ha ripreso tutta la sua bulimia egemonica nella comunicazione di questa crisi. Ebbene, questa figura di altissimo profilo sviluppa, in una trasmissione televisiva, appunto, il seguente ragionamento. Da quattro giorni, dice -ossia da mercoledì visto che la trasmissione era ieri sera- non è entrato più nessuno nel reparto di terapia intensiva del mio ospedale a motivo di Covid 19, dunque ne ricavo che…..

Fermiamoci un attimo, perché non dobbiamo in nessun modo tralasciare questo punto. La mente del ricercatore, infatti, nella sua struttura fondamentale, funziona esattamente così, in base a una relazione implicativa semplice e potente: se…allora…Data una premessa X ne segue Y. E, quel che è non meno importante, discendono da quella prima implicazione, ulteriori implicazioni a cascata che possono continuare a lungo. Non sto dicendo niente di nuovo, è chiaro: logica aristotelica, sillogismo, razionalità a due valori (vero/falso), quella che anche Popper considerava di ineguagliabile forza.

In queste condizioni, dove tutto dipende dalla premessa, la “qualità” dell’osservazione di partenza diventa cruciale. Perché quell’osservazione è considerata un’evidenza, come si dice con un pessimo anglismo per dire che viene intesa come una prova. Cioè un dato di fatto, o un evento significativo, idoneo a stabilire il punto d’avvio di una sequenza implicativa.

E’ chiaro che se io dico: hai fatto uno starnuto, dunque hai la polmonite, è un conto. Se dico: Gianni mi ha dato un pugno in faccia, perciò aveva intenzioni aggressive, è un altro conto. Rimango nell’ambito della stessa figura dimostrativa, ma il valore della prima è incomparabilmente inferiore alla seconda. Ecco, un ricercatore, nel corso della sua formazione, impara a riconoscere la “qualità” delle premesse. Non lega, in specie, la tenuta della sua catena implicativa a poche e circoscritte osservazioni. Non cede alla tentazione somma del ricercatore che vuole, pur legittimamente, un risultato: e che si chiama “generalizzazione induttiva”.

Intendiamoci, ricavare una legge generale per induzione, e cioè a partire da una certa quantità di osservazioni particolari, è una pratica corrente. L’archetipo moderno più usuale è il discorso sulle partite della domenica davanti al cappuccino al bar del lunedì. Ma arriva, dal calcio, fin nei laboratori di ricerca. Tutte le scienze empiriche, dure o molli che siano, vi sono soggette, anche se quelle più mature, e prima di ogni altra la fisica, sono sufficientemente attrezzate per schivare il rischio di caduta.

Ebbene, il ricercatore che cede alla tentazione induttivista, commette il “suo” peccato mortale. Diciamolo: qualunque cosa tu ricavi dalla premessa televisiva di cui sopra è perlomeno dubbio. Quanto a lui, l’intervistato deduce molte cose, tutte più o meno plausibili, alcune del tutto condivisibili. Il dottor Zangrillo dice, in primis, che il virus pur non avendo subito mutazioni (evenienza che sarebbe da provare), colpisce con minore virulenza rispetto alle passate settimane e che, dunque, si sta andando verso un affievolimento della sua aggressività. Dice, a seguire, che di fronte a questa virulenza attenuata, le terapie farmacologiche aspecifiche messe a punto per contrastare la progressione patologica del rapporto tra il virus e il suo ospite, cioè il paziente, si rivelano più efficaci. Dice che dal momento che non si può dire che il virus sia mutato (anche se qualcuno lo pensa), questa capacità ridotta del parassita di nuocere all’organismo che lo ospita è legata alla “carica virale” e quindi all’intensità dell’infezione. Dice che questo abbassamento dell’intensità infettiva dipende per un verso dalle mascherine, dal distanziamento sociale, dalle precauzioni d’uso –come lavarsi le mani- e per altro verso dall’azione dei raggi ultravioletti che stanno agendo col progressivo sopraggiungere dell’estate. E dice, dunque, rendendo del tutto esplicita l’implicazione, che bisogna aprire le porte di casa, procedere all’apertura totale, fare gli aperitivi sui Navigli milanesi e ovunque si facciano gli aperitivi, non tormentare ulteriormente i ragazzi con divieti che non hanno più ragione di esistere insieme a tutta una serie di altre questioni che il dottore ha definito, senza mezzi termini, ”futili”.

Tutti ciò ha notevoli ricadute sul piano della disputa pubblica che è insieme scientifica e politica. Intanto, dice, non dare più ascolto agli epidemiologi che stanno dietro ai computer, e che finora sono riusciti a far prevalere la loro visione delle cose. E darne, invece, ai medici clinici, che vedono in faccia la malattia, la combattono sul letto del malato e ne conoscono il decorso nei diversi stadi evolutivi e in conseguenza delle diverse strategie terapeutiche. Giacché, e conclude su un versante squisitamente politico, non si può correre il rischio di trasformare un grande paese democratico come il nostro in uno Stato di polizia. Con ciò chiudendo il cerchio che sempre si apre quando ci si trova di fronte a una epidemia, composta storicamente da due momenti, medico l’uno, sociale l’altro. È il problema che ci accompagna dal tempo delle “Magistrature di Sanità” dei nostri Stati rinascimentali, da Venezia in avanti. Problema che, al punto d’incrocio delle due dimensioni, vede impegnate proprio le competenze di amalgama tra medicina e sanità pubblica, vale a dire l’epidemiologia e la virologia.

Il dottore sta avendo molto successo. Sta provando a riscattare una tradizione in cui la sanità pubblica, per secoli, ha sempre sopravanzato la medicina clinica. Del resto, le necessità del piccolo schermo hanno avuto ragione delle sue resistenze nei confronti delle generalizzazioni induttive e hanno semplificato il suo linguaggio al punto da renderlo idoneo ad essere recepito da milioni di persone. E soprattutto, messo il suo messaggio in condizione di essere prontamente trasformato in un’agenda politica. Il dottore, si capisce, avrà modo di smussare, temperare, porre vincoli interpretativi, cautele di ogni sorta nelle sedi della comunicazione scientifica. Il suo prossimo articolo su Lancet sarà impeccabile. Ma io che l’ho visto e sentito ieri sera, questo ho capito da spettatore televisivo. Che posso ritornare “libero”, reclamare le azioni che assicurano questa “libertà” dai miei governanti e, perché no, che gli scienziati, al mattino, bevono il cappuccio esattamente come me.          

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Aborto, Onu: il corpo delle donne non sia campo di battaglia politico

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– Il corpo delle donne e’ diventato un “campo di battaglia” politico, mettendo in pericolo i progressi compiuti negli ultimi 30 anni nel campo della salute sessuale e riproduttiva. E’ l’avvertimento contenuto in un rapporto Onu che mostra come, nonostante i tassi di mortalita’ materna e di gravidanze indesiderate siano in continuo calo, i progressi nei diritti sessuali e riproduttivi stanno rallentando o addirittura stagnando. Trent’anni fa, in una conferenza al Cairo, 179 paesi si impegnarono a fare dei diritti sessuali e riproduttivi un asse centrale dello sviluppo sostenibile.

Cio’ “ha aperto la strada a decenni di progresso”, spiega Natalia Kanem, direttrice esecutiva del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione in una nota che accompagna il rapporto sullo stato della popolazione mondiale. Da allora, il numero di donne che usano contraccettivi e’ raddoppiato e almeno 162 paesi hanno promulgato “leggi sulla violenza domestica”, afferma Kanem. Ma nonostante i progressi, milioni di donne e ragazze sono state private di questi benefici a causa di considerazioni sulla loro identita’ od origini. Nel suo rapporto, l’Unfpa cita come ostacoli “il razzismo, il sessismo e altre forme di discriminazione”. D’altro canto, Kanem assicura che “parte del problema attuale risiede anche nel desiderio di politicizzare il corpo delle donne e di trasformarlo in un campo di battaglia”.

La responsabile cita l’esempio dell’aborto o le questioni legate alla fertilita’ e si rammarica che “la riproduzione umana sia politicizzata”. La sua valutazione e’ amara: “I progressi stanno rallentando e, per molti aspetti, sono addirittura in fase di stallo” e potrebbero essere invertiti. Il rapporto avverte che non vi e’ stata alcuna riduzione della mortalita’ materna dal 2016 e che i tassi stanno aumentando in un numero allarmante di paesi. Sottolinea inoltre che la violenza di genere resta diffusa. Inoltre, quasi la meta’ delle donne non e’ ancora in grado di prendere decisioni riguardo al proprio corpo o di esercitare i propri diritti in materia di salute sessuale e riproduttiva. “Gli sforzi per proteggere la vita e il benessere delle donne e delle ragazze non dovrebbero essere soggetti a pressioni politiche o essere fermati a seconda del governo al potere”, aggiunge.

Un’altra preoccupazione, secondo Kanem, riguarda le mutilazioni genitali femminili, che sono aumentate del 15% in tutto il mondo dal 2016. L’ultimo esempio e’ il Gambia, dove il Parlamento ha iniziato a considerare un disegno di legge per revocare il divieto a marzo. Il rapporto evidenzia anche la persistenza di sacche di disuguaglianza all’interno dei Paesi o delle regioni. Nelle Americhe, le donne nere hanno maggiori probabilita’ di morire durante il parto rispetto alle donne bianche, e negli Stati Uniti hanno un tasso di mortalita’ materna tre volte superiore alla media nazionale.

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Tumori: 99% seno e 92% colon guarisce con diagnosi precoce

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Il 99% delle donne che riceve una diagnosi di cancro al seno in fase iniziale (stadio I) guarisce dalla malattia Lo stesso vale per il 92% delle persone che scopre un tumore del colon-retto in stadio I. A confermare l’importanza della diagnosi precoce in oncologia è lo studio italiano pubblicato sull’International Journal of Cancer, che, inoltre, aggiunge un ulteriore tassello: quanto più la diagnosi è tempestiva, tanto più in fretta il paziente può dirsi guarito.

Lo studio, coordinato dal Centro di Riferimento Oncologico di Aviano Irccs e dall’Azienda Zero della Regione Veneto, ha analizzato i dati di 31 registri tumori italiani concentrandosi sui due tumori più frequenti in Italia: quello della mammella e quello del colon-retto. “Dallo studio è emerso che, al momento della diagnosi, la probabilità di guarire delle donne con tumori della mammella passa dal 99% per le diagnosi fatte al primo stadio (che rappresentano oltre la metà delle diagnosi) al 36% quando la malattia si presenta in stadi più avanzati (circa il 10% delle pazienti)”, dice Luigino Dal Maso, dirigente statistico dell’Epidemiologia oncologica del Centro di Riferimento Oncologico e coordinatore dello studio.

Per il cancro del colon-retto si passa dal 92% di probabilità di guarigione allo stadio I al 34% se la diagnosi arriva nello stadio III o IV. Altro elemento indagato dallo studio è quanto tempo deve passare dal momento della diagnosi prima che il rischio di morire per il tumore diventi trascurabile. In media servono in media circa 10 anni, ma con grandi differenze a seconda dell’età e dello stadio alla diagnosi. In particolare, se la diagnosi avviene in stadio I (e per il seno anche in stadio II) per la guarigione è sufficiente un anno. Attenzione, però, avverte Silvia Francisci, ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità tra le autrici dello studio, questo “non va inteso come un tempo che, una volta raggiunto, non necessiti più di sorveglianza o raccomandazioni suggerite dai medici curanti”.

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Con il caldo prolungato rischio gambe gonfie tutto l’anno

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Non ci sono più stagioni ‘alleate’ delle gambe per i circa 20 milioni di italiani che soffrono di insufficienza venosa. Una quota molto consistente costituita in modo preponderante da donne, ma che riguarda anche il 15% degli uomini colpiti da stasi venosa, ha infatti questo problema tutto l’anno a causa delle temperature mediamente alte.

“Il caldo, infatti, acuisce i sintomi dell’insufficienza venosa degli arti inferiori, una patologia cronica causata dalla difficoltà del sangue nel ritornare dalle vene periferiche delle gambe al cuore. Un problema erroneamente considerato solo estetico che invece necessita di attenzione e cura”, afferma Alessandro Frullini, presidente onorario dell’Associazione Flebologica Italiana. “In particolare, l’edema legato al calore è il risultato di un accumulo anomalo di liquidi nei tessuti che provoca la dilatazione dei vasi sanguigni e l’indebolimento delle piccole valvole che regolano il flusso nei vasi, rendendo difficili per le vene pompare il sangue verso il cuore”, spiega Edoardo Cervi, responsabile scientifico dell’Associazione Flebologica Italiana (AFI), specialista in Chirurgia Vascolare e Generale e autore di uno studio che ha dimostrato come un nuovo un mix di bromelina (una complessa miscela enzimatica estratta sia dalla polpa che dal gambo d’ananas, con effetto antinfiammatorio) e vitamina C liposomiale, se associato a un regolare movimento e a una dieta equilibrata, povera di sale e ricca di acqua, ha un forte impatto nella riduzione dell’edema.

I risultati del lavoro, appena pubblicato sull’International Journal of Angiology and Vascular Surgery, mostrano che basta una sola somministrazione al giorno per beneficiare del massimo effetto che solitamente si ottiene con due dosi di bromelina giornaliere. “L’insufficienza venosa degli arti inferiori colpisce circa il 30% delle donne, ma neanche gli uomini ne sono immuni, anche se tendono a ignorare e sottovalutare il problema – sottolinea Cervi -. A soffrire di gambe gonfie e doloranti è infatti il 15% della popolazione maschile”.

Tuttavia, l’incidenza dell’insufficienza venosa aumenta con l’età specialmente nelle donne: tra i 20 e i 30 anni, colpisce il 20% delle donne e il 10% degli uomini, mentre dopo i 50 anni, gli uomini restano fermi al 20% e le donne, con l’arrivo della menopausa che provoca uno sfiancamento del vaso sanguigno, salgono al 50%. In pratica tra le over 50, 1 su 2 soffre di insufficienza venosa. “Spesso legata alla familiarità, i principali fattori di rischio dell’insufficienza venosa sono l’obesità, il fumo, la sedentarietà e la presenza di patologie posturali – osserva Cervi -. Il caldo può peggiorare la condizione, causando una vasodilatazione di tutto il circolo venoso. Questo significa che le vene delle gambe, già colpite dall’insufficienza venosa, vanno ancora più in sofferenza a causa dell’ulteriore ingrossamento, favorito anche dal ristagno di liquidi causato dal drenaggio più lento. Sono quindi fondamentali una dieta sana e movimento fisico regolare, con esercizi molto semplici, camminare andare, in bicicletta o anche in cyclette, ruotare le caviglie e fare stretching ‘dolce’ che possono dare sollievo dal gonfiore”.

I CONSIGLI DEGLI ESPERTI PER COMBATTERE LE GAMBE GONFIE 1.

Ridurre il consumo di sale: il sodio può aumentare la ritenzione idrica. Il suggerimento è quello di sostituirlo con erbe aromatiche 2. Mantenersi bene idratati per ridurre il ristagno dei liquidi 3. La sera, prima di andare a dormire, sollevare i piedi appoggiandoli al muro o a una sedia 4. Se già si soffre di insufficienza venosa, indossare calze a compressione per aiutare il sangue a risalire verso il cuore 5. Mantenersi in movimento camminando, andando in bicicletta o facendo cyclette 6. Fare frequenti pediluvi freddi, puntando il getto della doccia sulle caviglie e risalendo verso l’inguine

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