Collegati con noi

Cronache

La Cassazione dice basta ai racconti stereotipati e sempre simili dei richiedenti, respinta la richiesta di un cittadino togolese

Pubblicato

del

Gli stranieri che richiedono lo status di rifugiati, lo fanno “sovente attraverso narrazioni stereotipate e tessute intorno a canovacci fin troppo ricorrenti”. Narrazioni che sembrano false, dunque andrebbero smascherare. Come? Non potendo andare alla radice, capire quale viaggio ha fatto il richiedente, è possibile verificare i racconti attraverso “un controllo di logicità, che appare ormai la principale, se non l’unica, difesa dell’ordinamento”. Questo è quanto scrivono i giudici della prima sezione civile della Cassazione, in una sentenza in materia di protezione internazionale.

La sentenza è relativa al caso di  un cittadino togolese cui sia la commissione della Prefettura sia il Tribunale hanno rifiutato lo status di protezione internazionale e umanitaria.

A.S., di confessione religiosa musulmano, aveva raccontato di essere stato costretto a fuggire dal suo Paese per evitare le ritorsioni causate dalla distruzione di un idolo in una zona in cui si pratica la religione animista. Questa poteva essere la sua condanna a morte. Da qui la fuga, l’arrivo in Italia e la richiesta di essere ammesso allo status di rifugiato. Se fosse vero, ne ricorrerebbero i motivi.

Ma secondo esperti della commissione amministrativa e tribunale il suo racconto non era credibile. Era un racconto privo – secondo commissione e Tribunale – di riscontri oggettivi, sia di quella intrinseca ed elementare coerenza logica, che consentirebbe di ritenere provate “circostanze che non lo sono affatto”. Perchè è “del tutto implausibile che A.S., appartenente alla minoranza musulmana, avesse distrutto l’idolo da solo e lo avesse fatto repentinamente pur nella consapevolezza delle reazioni alle quali sarebbe andato incontro, così da pregiudicare, per un gesto tanto insensato, non solo la buona posizione lavorativa raggiunta, ma anche la relazione familiare con la moglie e una figlia appena nata”. E questo è, o sarebbe, il controllo di logicità esperito da chi non può verificare alla fonte quanto sostenuto dal richiedente lo status di rifugiato.  La Cassazione difende questo «controllo di logicità», senza il quale “al giudice non resterebbe che prendere supinamente atto della domanda proposta, accogliendola in ogni caso, per quanto strampalata possa apparire”.

Il giudice, spiega la Cassazione, ha la possibilità di “stabilire quale sia la situazione complessiva in cui versa il Paese di provenienza (esistenza di culti animisti e di minoranze di religione musulmana)”, ma non “di accertare in concreto se la narrazione dei fatti riferita dal richiedente sia vera o inventata di sana pianta”. Come appare quella del musulmano A.S, “della cui fede pare nessuno si fosse mai interessato fino alla discreta età di circa 25 anni”, fino a che, “improvvisamente sollecitato dal capo villaggio a partecipare a una cerimonia animista, preso da incontenibile furia iconoclasta nei riguardi di un idolo, e dimentico della famiglia e del suo avviato mestiere di sarto, lo abbia distrutto a colpi di bastone e di machete e, già con i soldi in tasca per darsi alla premeditata fuga, sia poi scappato immediatamente dopo perché una donna lo aveva visto e riconosciuto”.

La Cassazione non solo boccia il ricorso del togolese A.S., ma trae da esso ulteriore conferma di una generalizzata tendenza che “emerge dall’esperienza dal collegio”, al punto da poterne ricavare una casistica di “narrazioni stereotipate”, che il relatore in Cassazione impietosamente elenca: “quella del giovane musulmano che ha messo incinta una ragazza cristiana, o del giovane cristiano che ha fatto lo stesso con una musulmana (le religioni possono peraltro variare), e scappa dalle furie dei genitori di lei; quella dell’uomo che il capo-villaggio ha destinato a sacrifici umani (il caso in esame appare una variante di questa trama) o ad altra non commendevole sorte; quella del sedicente omosessuale che, se lo fosse, sarebbe perseguitato al suo Paese; quello della lite degenerata in fatti di sangue in cui il richiedente ha, si intende senza volerlo, ferito o ucciso il proprio contendente, in un contesto in cui, quale che sia il Paese di provenienza, le forze di polizia del luogo sono sempre e irrimediabilmente corrotte ed astrette da oscuri vincoli alla potente famiglia della vittima, e così via”.

La sentenza, risalente all’agosto 2019, è stata pubblicata ora da Questione Giustizia, rivista online di Magistratura Democratica.

Advertisement

Cronache

Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

Pubblicato

del

Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

Continua a leggere

Cronache

Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

Pubblicato

del

Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

Continua a leggere

Cronache

Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

Pubblicato

del

Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto