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Cultura

Il Tesoro di San Gennaro proprietà del popolo di Napoli, la processione di primavera “vissuta” in una galleria fotogafica di Mario Laporta

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C’è un tempo sospeso tra le certezze e i dubbi, tra la pace dell’anima e l’inquieto vivere, tra l’oscurità dei vicoli e la luce dell’arte, tra il sole e la notte, tra quello che fu e ciò che non sarà mai, tra la speranza e la disperazione, tra la vita e la morte. C è un luogo unico al mondo, un luogo dell’anima, dove il sacro si fonde con il profano, dove tutto è il contrario di tutto, dove il sotterraneo si confonde con le tinte forti dei colori della luce e non solo metaforicamente.

Questo tempo sospeso e questo luogo dell’anima hanno un solo nome: Napoli! E nessun’altra città al mondo, se non Napoli, potrebbe consentirsi di aver realizzato, formato e custodito intatto uno dei patrimoni artistici più importanti al mondo, dedicato al suo cattolico Santo Protettore.

Tesoro che, però, non appartiene né alla Chiesa né allo Stato, bensì al suo popolo rappresentato da secoli dalla Deputazione, un’antica istituzione laica che lo conserva e lo preserva gelosamente.  Probabilmente il famoso miracolo dello scioglimento del sangue di San Gennaro, che una parte della cultura rappresentata da autori come Dumas ha sempre relegato a un mero evento di superstizione popolare, ha offuscato l’eccezionale movimento artistico che si è sviluppato nel corso di sette secoli, anche in nome e per conto di San Gennaro, a cui è stato delegato il compito di proteggere Napoli dalle catastrofi naturali e dalle eruzioni del Vesuvio. Non è un caso, quindi, che i capolavori appartenenti al tesoro siano stati realizzati dai più importanti artisti del tempo, che la gran parte di essi sia di manifattura napoletana e che siano stati donati e commissionati da re, regine, imperatori, papi e uomini illustri, ma anche dallo stesso popolo.

Questi capolavori documentano la straordinaria capacità di scultori e di argentieri napoletani che hanno saputo conciliare sapienza tecnica e creatività facendo squadra con i migliori pittori e scultori partenopei del tempo. Un percorso artistico, culturale, cronologico che rappresenta un’irripetibile testimonianza della storia dell’arte manifatturiera, orafa e argentiera napoletana comprese fra il quattordicesimo e il ventesimo secolo. E non è un caso se tra calici, pissidi, cestelli, candelabri, piatti, gioielli, e finissimi ostensori appartenenti al tesoro di San Gennaro emerga anche un popolo di santi. Ben cinquantaquattro santi d’argento, tanti quanti sono i santi compatroni eletti dai napoletani convinti che i loro problemi siano così numerosi che San Gennaro da solo non riesca a proteggerli. I busti e le statue reliquiari dei Santi compatroni sono il frutto di un lavoro di squadra di maestri altamente qualificati nel proprio settore.  E’ necessario sentire, ammirando ciascun oggetto, la forza energetica e artistica sprigionata da quei vicoli dove intere generazioni di artigiani, diventati artisti hanno dato forma e vita a capolavori non solo di tecnica, ma anche di cuore.

I cinquantaquattro busti reliquiari emergono da un serpente di folla policroma durante la processione di primavera nella storica e antica Spaccanapoli, come fosse un presepe, tra i petali di rose lanciati dai balconi. Processione che ricorda l’antica traslazione delle ossa dall’Abazia di Montevergine quando, per merito del cardinale Giovanni di Aragona, furono ritrovate le ossa di San Gennaro, collocate al di sotto dell’altare maggiore e la potente famiglia dei Carafa si impegnò, grazie soprattutto all’interessamento del cardinale Oliviero e con il sostegno di suo fratello, l’arcivescovo napoletano Alessandro Carafa, affinché le reliquie tornassero a Napoli, nel 1497,non senza l’opposizione da parte dei monaci di Montevergine. Come degno luogo per ospitarle, il cardinale Oliviero Carafa fece costruire nel Duomo di Napoli, al di sotto dell’altare maggiore, una cripta d’eccezione in puro stile rinascimentale: la Cappella del Succorpo.

Processione che è straordinariamente “fotografata” in un memorabile quadro esposto nel Museo di San Martino dal pittore Domenico Gargiulo, spettatore di quella invocata dai napoletani il 16 dicembre del 1631 , dopo 130 anni di inattività, il Vesuvio di svegliò e stava per distruggere Napoli. Il sangue si sciolse e la lava si fermò.

Ciascuna di queste opere esposte, peraltro, nel Museo del Tesoro di San Gennaro, non è solo un bell’ oggetto,  ma porta con sé il respiro delle vicende di un popolo, il cui destino e il cui carattere sono stati profondamente forgiati dalle bizzarrie di uno dei vulcani più pericolosi al mondo. Come uno specchio dell’anima, il tesoro di San Gennaro, infatti, riproduce la città partenopea nelle sue contraddizioni, ma anche nella sua essenza migliore e nella sua profonda autonomia laica, capace di rifiutare nel corso dei secoli tutti gli integralismi, di rifiutare sdegnosamente i processi di Santa Inquisizione pur nel pieno del dominio spagnolo, di accogliere, non solo perché porto di mare, etnie e costumi differenti, di non appiattirsi alle dominazioni, di vivere.

La storia del legame di Napoli con i suoi santi protettori, però, non è solo la straordinaria storia della fede di un popolo, perché rappresenta la ricchezza interiore di una città e, può sembrare paradossale, ma le statue d’argento finemente cesellate, scolpite e incise dai più importanti artisti napoletani raccontano una storia molto differente da quella triste della cronaca di tutti i giorni.

E’ quella di un popolo di santi che i napoletani invocano, ma che proprio come Napoli, non hanno un’immagine definita, ma mille, milioni di volti. Definire i volti di questo popolo di santi, e quindi di Napoli, è come asserire di essere riusciti a contare tutte le stelle di quell’universo.

* Paolo Jorio è il direttore del Museo del Tesoro di San Gennaro

 

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Cambio al vertice della Scala, arriva Ortombina

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Se ne va Dominique Meyer e arriva Fortunato Ortombina, resta Riccardo Chailly fino al 2026 per poi passare il testimone, anzi la bacchetta, a Daniele Gatti: sulla futura guida della Scala “finalmente è arrivata una decisione”. “Finalmente” è l’aggettivo usato dal sindaco di Milano Giuseppe Sala in apertura della conferenza stampa con cui ha annunciato la scelta come sovrintendente di Ortombina, a conclusione di una vicenda lunga oltre un anno, andata avanti a indiscrezioni, veti, decreti legge e colpi di scena. “Una soluzione eccellente, frutto di una collaborazione istituzionale” ha detto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, con cui inizia “una fase nuova” che segna il ritorno di un sovrintendente italiano dopo tre stranieri. “Abbiamo fatto tutto per il bene della Scala” ha assicurato Sala.

Mantovano, classe 1960, diplomato al Conservatorio di Parma, laureato in Lettere, studioso di musicologia, Ortombina è stato professore d’orchestra e corista del Regio di Parma, la lavorato all’Istituto di Studi Verdiani, e poi in vari teatri italiani prima di approdare proprio alla Scala dove è stato coordinatore artistico dal 2003 al 2007. Dal 2007 è alla Fenice di Venezia inizialmente come direttore artistico e poi dal 2017 anche come sovrintendente. Una duplice carica che probabilmente manterrà anche a Milano. Sulle sue competenze nessuno ha avuto da ridire. Forse l’unica perplessità è che “passerà dal guidare una gondola a un transatlantico”, come ha ironizzato qualcuno nei corridoi. Anche la Cgil ha riconosciuto le sue “capacità” in una nota in cui però esprime “preoccupazione” per la progettualità a lungo periodo del teatro. Ortombina al Piermarini inizierà dal primo settembre il lavoro come sovrintendente designato affiancando nella fase iniziale il sovrintendente in carica Dominique Meyer.

Il mandato del manager francese, ufficialmente partito nel giorno in cui il teatro ha chiuso per covid nel 2020, terminerà il prossimo 28 febbraio. Lui sarebbe voluto rimanere più a lungo perché, come ha detto nel marzo del 2023, dopo aver messo “a posto la Ferrari” avrebbe voluto “guidarla un po’”. Almeno un anno era la proposta uscita dall’ultimo cda. Ma dopo il confronto con il ministro Sangiuliano, alla fine gli è stato proposto di restare quattro mesi in più, fino al 1 agosto quando compirà 70 anni (una scelta, ci ha tenuto a precisare Sala, slegata dal decreto legge che prevede quella come età massima per i sovrintendenti e che per la Scala, in virtù della sua autonomia, non vale).

Meyer ha assicurato che resterà al suo posto fino alla fine del mandato, mentre rifletterà sulla proposta della proroga. Chi rimarrà fino a metà 2026 è il direttore musicale Riccardo Chailly, che inaugurerà le prossime due stagioni (il prossimo 7 dicembre con La Forza del destino e nel 2025 con Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Sostakovic) prima di lasciare il compito nel 2026 a Gatti. Sul suo arrivo c’è già l’accordo anche se formalmente sarà Ortombina a proporre al cda la sua nomina a direttore musicale. E dovrà essere Ortombina anche a proporre la nomina di un direttore generale, figura cancellata da Meyer ma che Sala ha consigliato al futuro sovrintendente di ripristinare. La proposta comunque non sarà fatta a questo cda, in scadenza a febbraio, ma al futuro. E anche sulla nomina dei nuovi consiglieri si giocherà una partita importante. Ma questa è un’altra storia.

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Cultura

Pompei, scoperto salone decorato ispirato alla guerra di Troia

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Un imponente salone da banchetto, dalle eleganti pareti nere, decorate con soggetti mitologici ispirati alla guerra di Troia, e’ uno degli ambienti recentemente portati alla luce durante le attivita’ di scavo in corso nell’insula 10 della Regio IX di Pompei  e oggi completamente visibile in tutta la sua maestosita’. Un ambiente raffinato nel quale intrattenersi in momenti conviviali, tra banchetti e conversazioni, in cui si respirava l’alto tenore di vita testimoniato dall’ampiezza dello spazio, dalla presenza di affreschi e mosaici databili al III stile, dalla qualita’ artistica delle pitture e dalla scelta dei soggetti. Il tema dominante sembra essere quello dell’eroismo, per le raffigurazioni di coppie di eroi e divinita’ della guerra di Troia, ma anche del fato e al tempo stesso della possibilita’, sovente non afferrata, che l’uomo ha di poter cambiare il proprio destino. Oltre a Elena e Paride, indicato in un’iscrizione greca tra le due figure con il suo altro nome “Alexandros”, appare sulle pareti del salone la figura di Cassandra, figlia di Priamo, in coppia con Apollo. Nella mitologia greca Cassandra era conosciuta per il suo dono di preveggenza e per il terribile destino che le impedisce di modificare il futuro. Nonostante la sua capacita’ di vedere oltre il presente, nessuno crede alle sue parole, a causa di una maledizione che Apollo le infligge per non essersi concessa a lui, e dunque non riuscira’ a impedire i tragici eventi della guerra di Troia, che aveva predetto. Dopo essere stata stuprata durante la presa di Troia, finira’ come schiava di Agamennone a Micene. La presenza frequente di figure mitologiche nelle pitture di ambienti di soggiorno e conviviali delle case romane aveva proprio la funzione sociale di intrattenere gli ospiti e i commensali, fornendo spunti di conversazione e riflessione sull’esistenza.

“Lo scavo nella Regio IX, progettato nell’ambito del Grande Progetto Pompei e portato avanti sotto la direzione Zuchtriegel, e’ la dimostrazione di quanto uno scavo ben fatto nella citta’ vesuviana possa continuare ad accrescere la conoscenza di uno dei luoghi piu’ importanti che ci sia pervenuto dall’antichita’. Nuove ed inedite pitture, nuovi dati sull’enorme cantiere che era Pompei al momento dell’eruzione, nuove scoperte sull’economia e sulle forme di produzione. Una messe straordinaria di dati che sta cambiando l’immagine codificata finora della citta’ antica. Un plauso a tutta la squadra interdisciplinare che con passione e professionalita’ sta portando avanti le ricerche”, ha affermato il direttore generale Musei, Massimo Osanna. “Le pareti erano nere per evitare che si vedesse il fumo delle lucerne sui muri. Qui ci si riuniva per banchettare dopo il tramonto, la luce tremolante delle lucerne faceva si’ che le immagini sembrassero muoversi, specie dopo qualche bicchiere di buon vino campano – ha sottolineato il direttore del Parco archeologico du Pompei, Gabriel Zuchtriegel – Le coppie mitiche erano spunti per parlare del passato e della vita, solo apparentemente di carattere meramente amoroso. In realta’, parlano del rapporto tra individuo e destino: Cassandra che puo’ vedere il futuro ma nessuno le crede, Apollo che si schiera con i troiani contro gli invasori greci, ma pur essendo un Dio non riesce ad assicurare la vittoria, Elena e Paride che con il loro amore politicamente scorretto sono la causa della guerra, o forse solo un pretesto, chi sa. Oggi, Elena e Paride siamo tutti noi: ogni giorno possiamo scegliere se curarci solo della nostra vita intima o di indagare come questa nostra vita si intrecci con la grande storia, pensando per esempio, oltre a guerre e politica, all’ambiente, ma anche al clima umano che stiamo creando nella nostra societa’, comunicando con gli altri dal vivo e sui social”.

Il salone misura circa 15 metri di lunghezza per sei di larghezza e si apre in un cortile che sembra essere un disimpegno di servizio, a cielo aperto, con una lunga scala che porta al primo piano, priva di decorazione. Sotto gli archi della scala e’ stato riscontrato un enorme cumulo di materiale di cantiere accantonato. Qualcuno aveva disegnato a carboncino sull’intonaco grezzo delle arcate del grande scalone, due coppie di gladiatori e quello che sembra un enorme fallo stilizzato. L’attivita’ di scavo nell’insula 10 della Regio IX e’ parte di un piu’ ampio progetto di messa in sicurezza del fronte perimetrale tra l’area scavata e non, di miglioramento dell’assetto idrogeologico, finalizzato a rendere la tutela del vasto patrimonio pompeiano (piu’ di 13 mila ambienti in 1070 unita’ abitative, oltre agli spazi pubblici e sacri) piu’ efficace e sostenibile. Lo scavo nell’area finora ha restituito due abitazioni collegate tra di loro, casa con panificio e fullonica (lavanderia), che prospettavano su via Nola e le cui facciate furono gia’ portate alla luce alla fine del ‘800. Alle spalle di queste due case, stanno emergendo in questa fase di scavo sontuosi ambienti di soggiorno affrescati, anche in questo caso interessati al momento dell’eruzione da importanti interventi di ristrutturazione

 

 

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Cronache

Tornano le visite a Bunker di Mussolini a Villa Torlonia

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Sei metri sotto i prati ormai fioriti del parco – sopra la testa quattro metri di cemento armato – trema il pavimento sotto i piedi e suonano le sirene mentre il frastuono delle bombe risuona tra le pareti curve come quelle di un sommergibile. E’ il momento più emozionante della visita al Rifugio Antiaereo e al Bunker di Villa Torlonia, a Roma, che da domani tornano aperti al pubblico. Costruiti per Mussolini, che nella tenuta lungo la via Nomentana prese la residenza nel 1929, finirono per essere usati invece dai cittadini romani per difendersi dai bombardamenti.

A lungo non visitabili, riaprono dopo due anni con un nuovo allestimento che è un viaggio nel sottosuolo della villa, ma anche nei giorni della guerra, quando la Capitale fu devastata da una pioggia di bombe. Nessuna coincidenza tra l’inaugurazione e le crisi internazionali di questi giorni, ha detto il sindaco Roberto Gualtieri: “Non credo che quando il progetto è partito ci fossero le terribili guerre che ci sono oggi – ha commentato nel corso della presentazione alla stampa – Però ricordare le tragedie della guerra è sempre importante, e oggi lo è ancora di più”. La mostra, curata da Federica Pirani e Annapaola Agati, con la collaborazione dell’assessorato capitolino alla Cultura, della Soprintendenza Capitolina e l’organizzazione di Zetema, è un’occasione per fare luce su una delle pagine più buie e drammatiche della città, colpita da 51 bombardamenti aerei tra luglio 1943 e maggio 1944. Il nuovo percorso parte da un video che racconta la vita vissuta nello sfarzo di Villa Torlonia dal dittatore fascista mentre portava l’Italia verso la guerra. Nelle sale successive, grazie ai contributi dell’istituto Luce, rivive il periodo storico dei bombardamenti. Tre sale sono dedicate alla vita nei rifugi con delle proiezioni sincronizzate.

Le due prospettive di chi bombarda e di chi è bombardato convergono in una sala dove sul pavimento sono proiettate le immagini riprese dagli aerei in azione, e sulle pareti Roma in macerie: “Il punto di vista dell’aviatore – ha spiegato la curatrice Pirani – e quello dei romani attoniti che guardano le rovine. Che sono di Roma, ma potrebbero essere quelle di Beirut, o di Jenin”. Poi, attraverso una ripida scala, si scende al bunker vero e proprio, lasciato spoglio da oggetti e proiezioni. In questo spazio è simulata una incursione aerea, attraverso la riproduzione dei suoni: sirene, aerei in avvicinamento, detonazioni, e le vibrazioni del terreno. Risalire su, al verde abbagliante della Villa in primavera, è un sollievo.

“Un luogo impegnativo, era giusto fosse accessibile, è un altro tassello del recupero dei luoghi della storia della città – ha commentato il sindaco Gualtieri – L’allestimento punta non solo a rendere conoscibile ‘filologicamente’ questo luogo ma a conoscere quelle pagine drammatiche della guerra, del fascismo e del suo capo, che è stato deposto e ci ha lasciato questo luogo, e che ha portato l’Italia nella più grande tragedia”. Fino all’orrore delle leggi razziali: “Il contrappasso della memoria vuole – ha ricordato Gualtieri – che a pochi metri da qui, sempre a Villa Torlonia, nascerà il Museo della Shoah, a memoria del più grande crimine che il regime fascista e nazista perpetrarono”. Per il via ai cantieri è solo questione di tempo: “Sono terminati i sondaggi, già c’è stata una aggiudicazione e il governo ha stanziato risorse – ha concluso il sindaco – Appena avremo il cronoprogramma lo comunicheremo”.

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