Il documento è stato rintracciato nel registro digitale di Atlantia, holding capogruppo di Autostrade per l’Italia. È un report che svela il “rischio crollo” per il Ponte Morandi di Genova. Finora i dirigenti di Autostrade per l’Italia davanti ai magistrati e ai media hanno sempre dichiarato che per il viadotto sul torrente Polcevera non c’era nessuno studio, report, documentazione, monitoraggio che attestasse un rischio crollo. Ma questi dirigenti sono gli stessi che hanno già mentito, anche in altro processo, come quello di Avellino, ad esempio, dove morirono 40 persone in un incidente sulla Napoli-Bari. A Genova i morti sono stato 43. A 14 mesi dal disastro e dalla carneficina con 43 morti, si scopre ora che quell’attestato, quel report che accertava un rischio grave di crollo, c’era. Lo hanno sequestrato lo scorso marzo i finanzieri nella sede di Atlantia, a Roma. E anche in quella di Autostrade per l’Italia. Quel “documento di programmazione del rischio”, stilato dall’apposito Ufficio Rischio di Aspi, è passato dai vari consigli di amministrazione, sia di Autostrade che di Atlantia, la capogruppo che in Italia e in Europa controlla 14 mila chilometri di autostrade. Nessuno se n’è mai preoccupato.

Il ponte Morandi. Sotto il cemento 43 morti

Dal 2014 al 2016 per il ponte “Morandi” si è discusso ai vertici delle aziende concessionarie del tratto crollato, proprio del “rischio crollo”; Nel 2017, quello che era un rischio crollo, diventa “rischio perdita stabilità”. E non è una questione semantica.  A Repubblica, il giornale che ha tirato fuori questo documento della Finanza, lo spiega Alfio Leonardi, ingegnere oggi in pensione, ma che per 36 anni ha lavorato per il ministero delle Infrastrutture e per il provveditorato alle Opere pubbliche della Liguria e del Piemonte. “La perdita di stabilità – ragiona l’ingegnere – non significa che crolli, ma si può risolvere con una lesione che si apre e che comporta la limitazione del traffico; il rischio crollo comporta invece l’immediata chiusura della struttura”. Ma che cosa è successo? Perchè nessuno si è preoccupato del rischio crollo? E perchè quel rischio crollo poi è stato derubricato a qualcosa di meno grave? Lo vogliono capire i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno. Vogliono capire perché mai il progetto di retrofitting (di consolidamento del ponte) soltanto nel febbraio del 2018 sia stato sottoposto alla valutazione del provveditorato alle Opere pubbliche e nel giugno sia giunto al Mit, nonostante quel “rischio crollo” fosse certificato già quattro anni prima. Dice: i  lavori sarebbero dovuti iniziare in autunno. Bene, il 14 agosto quel ponte è crollato ed ha ucciso 43 persone. Sono stati 43 omicidi. Magistrati ed investigatori chiedono ai 73 indagati di omicidio e disastro colposo plurimi come mai da una parte il ponte veniva classificato con voto inferiore a 50 (oltre questo livello si applicano misure di limitazione del traffico o chiusure). Quindi con rischio basso. È però ormai chiaro dalle intercettazioni telefoniche che i monitoraggi di Spea fossero edulcorati. Venivano “falsificati” per evitare chiusure di alcuni tratti autostradali. Era un modo per risparmiare sui costi. Come diceva Michele Donferri Mitelli, responsabile della Manutenzioni di Aspi, ai suoi al telefono: “Che sono tutti questi 50… me li dovete toglie tutti… adesso riscrivete e fate Pescara a 40”. Si riferiva al viadotto Moro di Pescara, uno dei dieci ponti entrati nell’ inchiesta bis.