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Cronache

Il pm antimafia Cesare Sirignano spiega le infiltrazioni criminali “nel settore agroalimentare”

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Cesare Sirignano, sostituto procuratore nazionale antimafia, è uno dei massimi esperti in agromafia e mafia dei trasporti. Minacciato più volte di morte per il suo impegno. Torniamo a parlare con lui dopo alcuni mesi sulla mafia nel 2020.

Il suo impegno nella lotta alla agromafia è risaputo, anche se questo è un argomento poco trattato. Quale è la situazione oggi?
Il settore agroalimentare è da molti anni al centro dell’interesse delle organizzazioni criminali e costituisce per il nostro Paese una delle occasioni di crescita e di sviluppo di primaria importanza. Come accade per tutti i settori produttivi, le infiltrazioni mafiose e la gestione delle attività collegate alla coltivazione ed alla distribuzione dei prodotti agroalimentari determinano una alterazione del mercato, con conseguente danno per i consumatori e per le parti più deboli del sistema, costrette a sottostare alle imposizioni del prezzo ed alle regole di commercializzazione dettate dalle organizzazioni che controllano il territorio.
Il settore agroalimentare è fortemente condizionato dalla pervasività delle mafie, che attraverso il controllo dei mercati ortofrutticoli, dei trasporti e della grande distribuzione decidono quali prodotti possono essere commercializzati ed a quale prezzo, ed impongono ai coltivatori le condizioni ed il costo del prodotto, in un rapporto che li vede soccombere, tanti da impedire lo sviluppo dell’attività, con ricadute negative sull’occupazione. Da più parti si segnala la crisi del settore agroalimentare, sebbene il nostro Paese, per ragioni climatiche, potrebbe ricavare enormi risorse proprio dalle attività agricole. Il contrasto delle organizzazioni criminali che impediscono la crescita del settore agroalimentare rappresenta certamente una priorità e il perseguimento di tale obiettivo non può prescindere da un incisivo impiego di risorse, tali, da un lato, da assicurare i necessari  controlli, e dall’altro da supportare i coltivatori nella conduzione della difficile attività.

Un tema da trattare e da non sottovalutare è quello della tratta degli esseri umani. Le mafie quanto investono e come nella tratta di esseri umani?
La tratta di esseri umani rappresenta uno dei business  criminali più redditizi, insieme allo spaccio di stupefacenti. Si tratta di un’attività illecita gestita da organizzazioni criminali sempre più strutturate sul territorio nazionale ed estero, e in forte incremento, anche a causa del costante flusso migratorio proveniente da alcune aree africane nonché dell’est Europa.
Le acquisizioni investigative degli ultimi anni disvelano come tale settore risulti quasi esclusivamente appannaggio di organizzazioni criminali transnazionali, comunemente definite nuove mafie o mafie etniche, che gestiscono il florido mercato della tratta di esseri umani con metodologie del tutto assimilabili a quelle proprie delle organizzazioni mafiose.
La tratta di esseri umani viene gestita da gruppi criminali stranieri con basi logistiche sparse in Italia ed in Europa ed attraverso sistemi di reclutamento e di trasferimento delle vittime che si basano su riti religiosi e false promesse di occasioni di lavoro il numero delle vittime di tratta sia dei paesi africani che del est europa è in continua crescita con giovani donne ed anche bambini immessi nel circuito dello sfruttamento sessuale e lavorativo
Le rotte seguite dai trafficanti di persone così come le modalità di trasporto variano nel tempo e sulla base di una attenta valutazioni dei rischi strettamente connesse all’intensificarsi dei controlli e dei sequestri
Un numero sempre più consistente di donne nigeriane, albanesi e rumene viene inserito dai trafficanti di migranti negli elenchi da trasportare con priorità sulle coste italiane dove ad accoglierle vi sono gruppi criminali della medesima rete che le indirizzano verso le località di destinazione
Si tratta di un settore criminale in cui le mafie straniere operano in totale autonomia da quelle autoctone reinvestendo i proventi ricavati in attività economiche in Italia e nelle località di origine dei trafficanti.

Le mafie straniere come le nigeriane, le cinesi e le albanesi che ruolo hanno ed in che rapporti sono con le italiane?
 Ormai da qualche decennio in Italia come in Europa si stanno radicando anche mafie straniere che, per struttura e pericolosità, non si presentano in modo molto diverso da quelle autoctone, con le quali si pongono in rapporto spesso di tolleranza e in alcuni casi di collaborazione. Le indagini ed i processi ormai conclusi su alcune organizzazioni nigeriane ed albanesi hanno disvelato come, sia sul piano organizzativo e strutturale che su quello metodologico, le organizzazioni straniere agiscano con i metodi propri delle mafie autoctone, gestendo  alcuni settori criminali quali il traffico di stupefacenti, la tratta di esseri umani, il traffico di  migranti, lo sfruttamento della prostituzione, ed investendo i capitali illeciti accumulati nel settore immobiliare e in quello della ristorazione, in Italia ed in alcune altre località europee.

La mafia nigeriana, in particolare, fortemente radicata in molte regioni d’Italia, puó contare di cellule operative anche in altri Stati europei, strettamente collegate tra loro. Si tratta di un’organizzazione in grado di soddisfare le richieste del mercato della droga e del sesso attraverso una fitta rete di contatti anche con le località di origine in cui risiedono i vertici e dove avviene il reclutamento delle vittime di tratta. 

In alcune zone d’Italia, come ad esempio a Castel Volturno, sono stati accertati anche casi di collaborazione nel settore del traffico di stupefacenti tra organizzazioni criminali nigeriane e clan di camorra, il che consente anche di ritenere che con il passare del tempo la comunità nigeriana che si è insediata sul litorale domitio si è strutturata in modo tale da costituire un interlocutore affidabile in un territorio ad alta densità criminale. 

Tratti in comune delle diverse organizzazioni criminali presenti nel territorio nazionale sono la violenza dei riti di affiliazione dei cult nigeriani (i principali cults a connotazione mafiosa, interessati, negli ultimi anni, da plurime inchieste giudiziarie sul territorio nazionale, sono i THE SUPREME EIYE CONFRATERNITY, i BLACK AXE, i MAPHITE e i VIKINGS), realizzati anche con costrizione del nuovo adepto, e l’obbligo alla partecipazione (mediante il pagamento di una sorta di “tassa di iscrizione”) al finanziamento della confraternita, chiamata a sua volta a provvedere al sostentamento delle famiglie degli affiliati detenuti, secondo un vincolo di assistenza previdenziale.

Costituiscono un fattore di coesione molto elevato le ritualità magiche e fideistiche, che, unite al vincolo etnico e alla forte influenza nella gestione da parte delle lobby in madrepatria, producono una forma di assoggettamento psicologico molto forte.

È sempre presente il ricorso alla violenza per assicurare la tenuta associativa, strumentale allo scoraggiamento di eventuali spinte centrifughe di coloro che ricercassero posizioni autonomiste o che non volessero più far parte dell’organizzazione.

I metodi del trasferimento dei capitali illecitamente acquisiti dalla criminalità organizzata nigeriana sono diversi: uno dei più conosciuti, oltre all’hawala, è il sistema “euro to euro” (un circuito di trasferimento informale, non tracciabile, in uso in Nigeria).

 La criminalità organizzata albanese continua con sempre crescente successo ad occuparsi in maniera predominante del traffico di sostanze stupefacenti, ma realizza importanti proventi illeciti anche dallo sfruttamento della prostituzione, attuato in forma organizzata, spesso in complicità con organizzazioni di rumeni o di nigeriani, riducendo le donne in condizione di schiavitù. Riscontri significativi in tal senso derivano dalle numerose attività di indagine condotte dalle forze di polizia giudiziaria su tutto il territorio italiano.

Il tratto peculiare di tale fenomeno di criminalità organizzata è quello di agire attraverso affiliazioni rinsaldate da legami familiari e di comune provenienza geografica dall’Albania (Valonesi, albanesi del nord ecc.). Si tratta di organizzazioni criminali di difficile annientamento, per la loro notevolissima abilità nel rivitalizzarsi e rinnovarsi negli uomini e nelle modalità operative, oltre che per la straordinaria capacità di spostarsi sul territorio nazionale e anche all’estero.

Nel corso degli anni sono stati rilevati sistemi di comunicazione particolarmente sofisticati e di difficile intercettazione tra le cellule albanesi presenti in Italia e in alcuni territori europei in costante contatto con affiliati stabilmente insediatisi nel sud-America nella gestione dei rapporti con i cartelli sud-americani. Anche gli albanesi, come i nigeriani, sono diventati interlocutori delle mafie autoctone, e ciò anche per la loro presenza con compiti di manovalanza in alcuni porti che rappresentano crocevia importanti nel traffico internazionale di stupefacenti. 

Ad ogni intervento repressivo, peraltro, fa seguito una riorganizzazione della cellula criminale sul territorio e, data l’estensione del fenomeno, appare verosimile ipotizzare che la criminalità albanese almeno in certe aree territoriali abbia acquisito una sorta di monopolio o di preponderanza operativa nella attività di distribuzione degli stupefacenti.

 Anche la criminalità cinese presenta caratteristiche tipicamente mafiose nella gestione di alcuni settori criminali.

Negli ultimi anni le Forze di polizia giudiziaria hanno sottoposto a sequestro ingenti quantitativi di droghe sintetiche in particolare metanfetaminici (droghe tipo ice e shaboo), riconducibili a traffici gestiti da  organizzazioni cinesi, nonché materiale di ogni genere contraffatto e spesso anche pericoloso per la salute pubblica. 

 Come vede il 2020 per la lotta alla mafia?

 La lotta alle mafie rappresenta senza dubbio una priorità per il nostro Paese, impegnato sia sul piano politico che sul piano giudiziario nella ricerca degli strumenti anche di natura processuale per rendere più efficace possibile la strategia di aggressione ai patrimoni illecitamente accumulati.

La riforma del processo penale appare ineludibile per rendere più credibile l’azione di contrasto, più celere l’accertamento dei reati e delle responsabilità, nel rispetto delle garanzie individuali. L’attuale sistema accusatorio non è adeguato a soddisfare le istanze di giustizia provenienti dalla società civile ed a contrastare i fenomeni criminali particolarmente pervasivi e perniciosi. 

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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