Sono i testimoni, sono quelli che ogni giorno riportano le immagini della assurda situazione che tutti stiamo vivendo, sono quelli che rischiano il contagio e rischiano di contagiare i propri familiari al ritorno nelle proprie case per farci conoscere. Per farci vedere e farci rendere conto di che cosa sta accadendo fuori, fuori dalle nostre case che oggi più che mai in questi giorni non dobbiamo lasciare, per continuare il trend in discesa che ci fa sperare, ma non deve farci abbassare la guardia, farlo sarebbe terribile e porterebbe conseguenze ben più catastrofiche.
Loro, i testimoni: sono i fotogiornalisti, quelli che non possono usufruire dello smartworking o dell’houseworking, loro in strada devono esserci per forza; i fotogiornalisti d’agenzia, i freelance, quelli che lavorano con i giornali, quelli che fanno entrare le foto nelle nostre case, sui nostri telefoni, non si fermano, come durante le guerre testimonieranno anche questa, facendocene rendere conto, con le immagini fisse, quelle che rimangono impresse nella mente e nei cuori, quelle che un giorno ci faranno ricordare e capire il tempo che stiamo attraversando.
Alberto Pizzoli, Salvatore Laporta, Ivan Romano, Igor Petix, Fabrizio Villa, Alessandro Garofalo, Riccardo Siano, Ciro Fusco, Luca Bruno, Roberta Basile, Sergio Siano, Alessandro di Laurenzio, Renato Esposito, Cesare Abbate, Ciro de Luca, Massimo Sestini, Carlo Hermann, Alessandro Pone, Michele Amoruso, Felice de Martino e tanti, tanti altri con i quali mi scuso per non averli citati, che da Napoli, Roma, Milano, Catania, Palermo, Cosenza, Firenze, e di agenzie come l’Ansa, l’Associated Press, France Presse, Gettyimages e dai quotidiani Corriere del Mezzogiorno/della Sera, Mattino, Repubblica, testimoni che ogni giorno oltre alle infinite difficoltà che incontrano sulla via della loro professione, hanno enormi responsabilità al loro ritorno a casa. C’è chi non abbraccia più e non vede dall’inizio dell’emergenza la propria compagna o i propri cari, avendo scelto l’isolamento totale al ritorno dalla giornata lavorativa, chi al ritorno a casa, come quasi tutti si sottopone alle misure sanificatrici riprese dai protocolli ospedalieri, abbandono di tutti gli abiti fuori la porta di casa, docce intense e indumenti rigorosamente utilizzati solo per la casa, chi ha persone anziane in casa, non le vede o si tiene ad una distanza che va ben oltre il metro imposto dalle ordinanze ministeriali. Tutti hanno cominciato a seguire l’emergenza dai primi sviluppi, quando sembrava ancora che poteva essere tenuta sotto controllo e dalle prime fotografie sempre hanno tenuto presente, chi per indicazione dell’agenzia o giornale di riferimento, chi per iniziativa personale, i livelli di sicurezza ai quali dovevano attenersi. Non si lamentano per le eventuali restrizioni che potrebbero essere state messe in atto in merito al loro lavoro e per la salvaguardia della loro sicurezza, anzi, tutti affermano che non ci sono restrizioni, si riesce ad avere un costruttivo dialogo con le autorità e si riesce a ben documentare ciò che realmente accade nei presidi oramai divenuti ospedali di guerra, come afferma Salvatore Laporta: “ Fotografo tutti gli aspetti relativi a questa emergenza, da quello sanitario, gli ospedali destinati ad accogliere i pazienti CoVid19, il personale sanitario impegnato a soccorrerli, gli interventi di sanificazione delle strade della città, a quello sociale, documentando la vita stravolta dei cittadini, la loro risposta alle nuove regole, la paura nei loro volti coperti da mascherine i messaggi di speranza affidati a disegni, striscioni e bandiere. Fotografo la città ormai deserta e silenziosa senza il caos delle auto e il vociare del suo popolo, e contemporaneamente anche il lavoro svolto dalle forze dell’ordine impegnate a far sì che vengano rispettate le ordinanze del Governo”.
Questo è lo spirito di tutti anche se negli ultimi giorni, alcuni atteggiamenti sono cambiati. Cambiamenti non dovuti a precise disposizioni ministeriali o istituzionali, ma intesi come percezioni interpretative di funzionari oppure di operatori sia sanitario che della sicurezza in special modo in alcune aree del paese come rileviamo dalla testimonianza di Ivan Romano: “In questa fase devo ammettere di riscontrare diverse limitazioni alla liberta di stampa. Benchè sia garantita la circolazione dei giornalisti, l’atteggiamento che trovo per strada è di un generale distacco verso la professione, il più delle volte la quasi totalità degli attori in gioco in questa storia sono poco avvezzi alle fotografie, con dispiacere devo sottolineare che i meno disponibili sono proprio coloro di cui si dovrebbe raccontare: mi riferisco alle situazioni ospedaliere e sanitarie in generale, ai controlli delle forze dell’ordine e ai volontari in campo in questa storia. A tal proposito voglio sottolineare le responsabilità verso gli altri paesi occidentali che non hanno potuto vedere i rischi della diffusione del covid19, con immagini forti che ad esempio potevano documentare i reparti di terapia intensiva e il lavoro dei sanitari o come è accaduto tardivamente almeno nelle zone più colpite, i decessi. E’ più un approccio culturale che una vera e propria limitazione burocratica, diversi episodi spiacevoli si sono verificati e mi sono ritrovato in condizione di non poter documentare sanificazioni di uffici pubblici per la presa posizione di alcuni soggetti che adducevano ragioni sanitarie senza alcun titolo, altri colleghi hanno subito quasi delle vere e proprie intimidazioni e il generale atteggiamento è quello di insofferenza e fastidio, su questo probabilmente occorrerà discutere quando tutto questo sarà finito, perché compromette il rischio che ci assumiamo a scendere per strada per svolgere la nostra funzione di servizio pubblico. Inoltre si sono sollevate critiche a mio parere inutili, sull’opportunità di esporsi al rischio contagio, molte delle quali sono giunte anche da alcuni colleghi che hanno preferito o sono stati costretti a rimanere a casa, questo approccio è ugualmente una forma di restrizione, anche se in forma intellettuale, ma pur sempre un argomento su cui occorre dibattere”.
Non si svolge solo la propria professione, ma si provvede a tutte le esigenze di casa, al ritorno ci si rifornisce della spesa e di tutte le cose che sono indispensabili, e una volta a casa si è padri e madri e ci si dedica ai figli come Alessandro Garofalo: “di ritorno a casa rivivo la mia famiglia, mia moglie, i miei figli Jacopo e Mara che portano avanti quotidianamente le loro attività’scolastiche con la classe multimediale” . Ed è la vita che nonostante tutto continua, la vita che ricerca la normalità.
Ma non è solo la professione, il poter lavorare, il guadagno, benchè misero, a motivare l’abnegazione con la quale questi professionisti visuali affrontano il prorpio lavoro, la propria missione, sono motivazioni intime e intense come ascoltiamo da Ciro Fusco: “Ora più di altre volte lo sguardo deve andare oltre la cronaca e cercare immagini che, domani, saranno utili a raccontarne la storia”, da Alberto Pizzoli: “Cerco di raccontare quello che succede sotto ogni aspetto, aspirando di non scadere nel ridicolo come ho visto che a volte su certe immagini accade, vedo forzature inutili in particolare nelle zone lontane”. O Salvatore Laporta; “con le mie immagini voglio documentare il momento che stiamo vivendo, facendo trasparire senza filtri le emozioni, le paure , gli stati di animo, gli stravolgimenti sociali che vengono catturati nei miei scatti, e con essi, un giorno spero si possa raccontare la storia”. Motivazioni che sono dettate prima di tutto dal desiderio di guardare in faccia la storia, di comprenderla appieno, di osservare senza filtri, di poter testimoniare, testimoniare per tramandare, un po’ come hanno fatto coloro che scrissero i Vangeli, sia quelli ufficiali che quelli apocrifi, ma noi, purtroppo, questi nuovi testimoni, quelli che lasceranno le prove inconfutabili alle prossime generazioni, non li chiamiamo santi.