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Cronache

Elisabetta Cirillo come Nadia Toffa, ha raccontato il cancro che l’ha divorata fino alla fine

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“Quando riesci a raccontare la tua storia senza che questa ti faccia piangere significa che l’hai interiorizzata”. Questa frase campeggia sul profilo Facebook a Elisabetta Cirillo, blogger bresciana che aveva deciso di raccontare la sua battaglia contro il cancro attraverso i social. E ogni giorno la sua vita era in piazza su Fb, un modo per esorcizzare il male, non per rimuoverlo, ma per combatterlo anche grazie alla forza dei suoi followers che la invitavano a non arrendersi, la spronavano a combattere. Elisabetta però non ce l’ha fatta. “1 Agosto 1986 – 9 Ottobre 2019. Un angelo tra noi che ha deciso di aspettarci più in la. E’ sempre stata avanti ❤️ @ Brescia”. Questa frase, che è il saluto di Elisabetta alla vita terrena, strozza il cuore di chi le voleva bene, pur conoscendola solo attraverso i social network.

Elisabetta Cirillo come Nadia Toffa è stat sconfitta dal cancro. Lei però, forse perché è donna, e allora ha una marcia in più, non s’è mai mostrata sconfitta a questo male. Che l’ha divorata, ma non l’ha mai uccisa nell’anima. Un male che l’ha portata via il corpo, ma lei ha lasciato un segno con le sue battaglie raccontate sui social. Elisabetta Cirillo ha fatto le stesse cose di Nadia Toffa. La stessa forza, lo stesso spirito stesso sorriso, la stessa voglia di vivere, lo stesso racconto quasi di gioia delle sue giornate spese tra medici,  ospedali, chemio,  speranze, paure, discese ardite, risalite. Elisabetta Cirillo  ha lottato come una leonessa fino alla fine. Poi ha capitolato. Ma aveva il sorriso sulla bocca anche quando si è spenta. Le piaceva dire “vivo”, “ho vissuto”, “vivrò”. Declinava il verbo vivere in ogni modo, in ogni forma. Elisabetta, laurea in Lingue, dopo la laurea in Lingue alla Cattolica di Brescia,  era andata a vivere a Roncadelle, in una grande casa. Girava il mondo per goderselo: Nuova Zelanda, il Sud Africa, New York e la Russia. E con una amica a Brescia, Nicoletta, aveva messo su uno studio di yoga. Era questa la sua vera passione.

“Lisa in the world” era il blog attraverso il quale raccontava i suoi progressi, i sei “rapporti” con la malattia, la sia voglia di vita. ” giugno le bellissime nozze con il suo amore, il lungo vestito bianco.

“Una cicatrice non è mai atroce può capitare che una notte d’estate un principe buono si avvicini per poterla baciare. Quando ho conosciuto il mio futuro marito – scriveva Elisabetta su Instagram – avevo una maglietta scollata da cui si vedeva molto la cicatrice del mio port, mio marito dice che appena l’ha vista la voleva baciare, io non la amavo molto ma da allora gliela ho regalata”. Ultimamente, prendeva tempo. “Sono scomparsa per un po’ perché è un periodo leggermente complicato, tra lavorare a due libri, combattere il cancro (sto facendo una radioterapia inaspettata dopo il mio ultimo controllo) insomma, le solite cose!”. Ma il suo blog non è più stato aggiornato.

Elisabetta non c’è più. Ma di lei resteranno i consigli. Le istruzioni per la vita elencate nel suo libro “Come capita la vita”, questo il so libro. Lo ha presentato in giro. “La prima volta che mi sono chiesta per cosa valesse la pena vivere – scriveva – è stato in corrispondenza della prima recidiva, avevo 28 anni e mi sono sentita impotente. Mia cugina mi rispose in modo pacato “si fa per le persone che ami, per le cose che ami fare e per i sogni che vuoi realizzare”. Non che prima non avessi sogni, ma non era mai stata una questione di vita e di morte.
Adesso mi rendo davvero conto di che cosa significa dire “che se non si vive per qualcosa si finirà col morire per niente””. Elisabetta amava vivere. Il male se l’è portata via. Ma non tutto.

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Cronache

Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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