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Conte a Londra prepara con Johnson la conferenza Onu sul clima e poi vede il signore dell’acciaio Lakshmi Mittal per discutere del caso Ilva

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L’Italia organizzerà un evento per coinvolgere i giovani nella battaglia sui cambiamenti climatici a Milano tra il 28 settembre e il 2 ottobre assieme all’incontro preparatorio della Cop26, la conferenza Onu sul clima presieduta dal Regno Unito con partnership italiana. L’annuncio a Londra è del premier Giuseppe Conte, nella cerimonia di lancio dell’iniziativa assieme a Boris Johnson. È il primo incontro tra i due premier dopo Brexit. Un ulteriore evento dedicato all’Africa si svolgerà a Roma, ha detto il premier, che ha indicato la Cop26 come cruciale e il 2020 come “anno decisivo” per il clima.

Nel suo intervento, il presidente del Consiglio ha ricordato come l’Italia sia “il secondo Paese in Europa” sul fronte dell’uso di energie rinnovabili e ha rivendicato la politica di “investimenti pubblici” sostenuta dal governo per promuovere “un’economia più verde”. A livello globale, ha poi invocato l’urgenza di “accelerare” verso “l’ambizioso obiettivo” delle emissioni zero “entro il 2050”. “Serve coraggio” ha insistito, evidenziando come l’Italia sia “pronta ad assumere le sua responsabilità” e “non veda l’ora” di ospitare gli eventi previsti a Milano e Roma per la cosiddetta pre-CoP. “Se lo sforzo non è globale, non vinceremo questa sfida”, ha del resto avvertito, martellando sull’idea del 2020 come “anno decisivo” e sul ruolo-guida che Roma e Londra sono chiamate a svolgere per incoraggiare anche gli altri Paesi del mondo ad accelerare il passo. Riferendosi infine al luogo dell’evento, lo Science Museum, Conte ha indicato “la scienza” come “il nostro più grande alleato” nella battaglia contro i cambiamenti climatici e il surriscaldamento del pianeta. A margine dell’incontro sul clima, i due premier hanno anche parlato di dossier comuni ai due Paesi.

“Mi ha fatto piacere” che il premier britannico Boris Johnson “abbia riconosciuto il ruolo indispensabile della comunità italiana” e abbia assicurato “la massima attenzione perche’ si possa poter “continuare a lavorare qui a studiare e fare imprese” ha detto  Conte. Sulle relazioni future tra Ue e Regno Unito “ci auguriamo un accordo entro la fine dell’anno nell’interesse reciproco, ovviamente come Paese Ue ci auguriamo una parità di condizioni a tutti i livelli” ha spiegato  Conte . Quanto alla tutela delle esportazioni dei prodotti italiani, “ci affidiamo alla capacità negoziale di Barnier” che, secondo Conte, “è sempre stato attento” a questi aspetti. A Londra Conte ha poi incontrato il numero uno di ArcelorMittal, Lakshmi Mittal. L’imprenditore indiano che vive e opera a Londra ha un patrimonio stimato di 11,6 miliardi di dollari. L’incontro, anche se Palazzo Chigi stempera, quasi lo fa passare come un incontro qualunque, è stato invece preparato nei minimi dettagli. E si è svolto in ambasciata italiana a Londra. Dunque nel luogo istituzionale di più alto livello per l’Italia nel Regno Unito. Il presidente Conte e Lakshmi Mittal hanno potuto con tranquillità discutere del dossier dell’ex Ilva di Taranto. Un incontro utile a verificare che ci sono “obiettivi” condivisi e a dare “nuova linfa ai nostri negoziatori” ha detto Conte ai giornalisti che lo aspettavano di fronte all’ambasciata italiana per conoscere l’esito di questo colloquio con Lakshmi Mittal, numero uno di ArcelorMittal, dedicato al dossier dell’ex Ilva. “Non dovete pensare che l’incontro sia stato per negoziare i dettagli, però è stato un incontro utile per ribadire le linee strategiche di fondo di questo negoziato, ci siamo aggiornati”, ha spiegato Conte . “Ovviamente – ha proseguito Conte – ci sono i nostri rispettivi negoziatori e lo staff di legali che stanno lavorando, si sta definendo il piano industriale, si stanno anche creando anche le premesse per l’ingresso del pubblico, perchè, come abbiamo detto, ci sarà anche un investimento pubblico”. “In tribunale bisogna andarci, ma sarebbe bene arrivarci con un accordo” ha detto il premier. “Il tema – ha osservato Conte – è che il giorno 7 è prossimo: c’è l’udienza, quindi ci sono ancora dettagli”. “Non sono entrato nel dettaglio delle clausole – ha rimarcato -, però sicuramente ribadirci quali sono gli obiettivi, le strategie della negoziazione che stiamo portando avanti e ritrovarci a condividere degli obiettivi è stato importante e credo che questo offrira’ anche ai nostri negoziatori nuova linfa e nuova energia per lavorare fino a notte fonda”.

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Copernicus, marzo 2024 il mese più caldo mai registrato

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Il marzo del 2024 è stato il mese di marzo più caldo mai registrato. Lo rende noto il servizio meteo della Ue Copernicus. La temperatura media globale il mese scorso è stata di 14,4°C, superiore di 0,73°C rispetto alla media del trentennio 1991 – 2020 e di 0,10°C rispetto al precedente record di marzo, quello del 2016. Il mese inoltre è stato di 1,68°C più caldo della media di marzo del cinquantennio 1850 – 1900, periodo di riferimento dell’era pre-industriale. Secondo Copernicus, il marzo 2024 è il decimo mese di fila che si classifica come il più caldo mai registrato.

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Ecdc-Efsa, rischio diffusione dell’aviaria su larga scala

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Si alza il livello di attenzione sull’influenza aviaria da virus A/H5N1. Dopo tre anni che l’agente patogeno circola in maniera particolarmente sostenuta tra uccelli selvatici e di allevamento, infettando anche mammiferi ed espandendo la sua area di diffusione, da poco più di una settimana gli occhi sono puntati sugli Stati Uniti, dove si segnalano infezioni in allevamenti di mucche da latte. Al momento sono interessati una dozzina di allevamenti dislocati in cinque stati (Texas, Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho). Il primo aprile, poi, i Centers for Disease Control and Prevention hanno diffuso la notizia che anche un uomo ha contratto l’infezione; le sue condizioni sono buone.

Ad oggi si ritiene che sia gli animali sia l’uomo abbiano contratto l’infezione attraverso il contatto con uccelli infetti. Secondo le autorità americane questi casi non cambiano il livello di rischio, che resta basso per la popolazione generale. Tuttavia, i segnali di allarme si moltiplicano. In un rapporto pubblicato mercoledì, l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) e la European Food Safety Authority (Efsa), avvertono: “se i virus dell’influenza aviaria A/H5N1 acquisissero la capacità di diffondersi tra gli esseri umani, potrebbe verificarsi una trasmissione su larga scala”.

Fino a oggi, le infezioni nell’uomo sono poche (circa 900 dal 2003) e del tutto occasionali. Non ci sono prove di trasmissione tra mammiferi, né da uomo a uomo. Tuttavia, la congiuntura invita alla massima attenzione. In piena pandemia, nel 2020, è comparsa una nuova variante di virus A/H5N1 (denominata 2.3.4.4b) che in breve è diventata dominante. Da allora, sono aumentati il “numero di infezioni ed eventi di trasmissione tra diverse specie animali”, si legge nel rapporto. Questi continui passaggi tra animali e specie diverse aumentano le occasioni in cui il virus può mutare o acquisire porzioni di altri virus che lo rendano più adatto a infettare i mammiferi. In realtà A/H5N1 ha già compiuto dei passi in questa direzione.

Ha imparato a moltiplicarsi in maniera più efficace nelle cellule di mammifero e a sviare alcune componenti della risposta immunitaria. Ciò gli ha già consentito negli ultimi anni di colpire un’ampia gamma di mammiferi selvatici e anche animali da compagnia, come i gatti. Anche i fattori ambientali giocano a suo favore: i cambiamenti climatici e la distruzione degli habitat, influenzando le abitudini degli animali e intensificando gli incontri tra specie diversa, fanno crescere ulteriormente le probabilità che il virus vada incontro a modifiche.

Nonostante ciò, al momento non ci sono dati che indichino che A/H5N1 abbia acquisito una maggiore capacità di infettare l’uomo. Tuttavia, se questa trasformazione avvenisse saremmo particolarmente vulnerabili. “Gli anticorpi neutralizzanti contro i virus A/H5 sono rari nella popolazione umana, poiché l’H5 non è mai circolato negli esseri umani”, precisano le agenzie. Per ridurre i rischi Ecdc ed Efsa invitano ad alzare la guardia, rafforzando le misure di biosicurezza negli allevamenti, limitando l’esposizione al virus dei mammiferi, compreso l’uomo, e intensificando la sorveglianza e la condivisione dei da

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Da 20 anni aria più pulita in Europa, ma non basta

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Da 20 anni a questa parte si respira un’aria più pulita in Europa, ma nonostante ciò la maggior parte della popolazione vive in zone in cui le polveri sottili (PM2.5 e PM10) e il biossido di azoto (NO2) superano ancora i livelli di guardia indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: il Nord Italia, in particolare, è tra le regioni con le concentrazioni più alte. Lo dimostra uno studio pubblicato su Nature Communications dall’Istituto di Barcellona per la salute globale (ISGlobal) e dal Centro nazionale di supercalcolo di Barcellona (Bsc-Cns). I ricercatori hanno sviluppato dei modelli di apprendimento automatico per stimare le concentrazioni giornaliere dei principali inquinanti atmosferici tra il 2003 e il 2019 in oltre 1.400 regioni di 35 Paesi europei, abitate complessivamente da 543 milioni di persone. Per lo studio sono stati raccolti dati satellitari, dati atmosferici e climatici e le informazioni riguardanti l’utilizzo del suolo, per ottenere una fotografia più definita rispetto a quella offerta dalle sole stazioni di monitoraggio. I risultati rivelano che in 20 anni i livelli di inquinanti sono calati in gran parte d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il PM10 (con un calo annuale del 2,72%), seguito da NO2 (-2,45%) e dal PM2.5 (-1,72%).

Le riduzioni più importanti di PM2.5 e PM10 sono state osservate nell’Europa centrale, mentre per NO2 sono state riscontrate nelle aree prevalentemente urbane dell’Europa occidentale. Nel periodo di studio, il PM2.5 e il PM10 sono risultati più alti nel Nord Italia e nell’Europa orientale. Livelli elevati di NO2 sono stati osservati nel Nord Italia e in alcune aree dell’Europa occidentale, come nel sud del Regno Unito, in Belgio e nei Paesi Bassi. L’ozono è aumentato annualmente dello 0,58% nell’Europa meridionale, mentre è diminuito o ha avuto un andamento non significativo nel resto del continente. Il complessivo miglioramento della qualità dell’aria non ha però risolto i problemi dei cittadini, che continuano a vivere per la maggior parte in zone dove si superano i limiti indicati dall’Oms per quanto riguarda il PM2.5 (98%), il PM10 (80%) e il biossido di azoto (86%). Questi risultati sono in linea con le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente per 27 Paesi dell’Ue, basate sui dati provenienti dalle stazioni urbane. Inoltre, nessun Paese ha rispettato il limite annuale di ozono durante la stagione di picco tra il 2003 e il 2019.

Lo studio ha infine esaminato il numero di giorni in cui i limiti per due o più inquinanti sono stati superati simultaneamente. E’ così emerso che nonostante i miglioramenti complessivi, l’86% della popolazione europea ha sperimentato almeno un giorno all’anno con sforamenti per due o più inquinanti: le accoppiate più frequenti sono PM2.5 con biossido di azoto e PM2.5 con ozono. Secondo il primo autore dello studio, Zhao-Yue Chen, “sono necessari sforzi mirati per affrontare i livelli di PM2.5 e ozono e i giorni di inquinamento associati, soprattutto alla luce delle crescenti minacce derivanti dai cambiamenti climatici in Europa”.

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