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Cronache

Carabinieri di Piacenza arrestati, festini in caserma con droga e una trans che denuncia: ho subito minacce

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“Se non collbabori, se non mi dai lavoro, in un modo o nell’altro ti frego e ri timando in Brasile”. Sono le minacce che il comandante della Stazione Levante dei carabinieri di Piacenza, il maresciallo Marco Orlando, avrebbe rivolto ad una transessuale in diverse occasioni gia’ un anno e mezzo fa, quando il ‘sistema criminale’ messo in piedi nella caserma, secondo le accuse della procura, era ancora sconosciuto. La trans – una brasiliana da tempo a Piacenza che ha chiesto di esser chiamata Francesca – tramite il suo avvocato Elena Concarotti ha presentato ai magistrati una richiesta di essere sentita come persona offesa. “Sono stata minacciata piu’ volte” racconta, sostenendo di esser stata obbligata a fare sesso e di esser stata picchiata una volta all’interno della caserma. Questa trans compare in un capitolo degli atti della richiesta cautelare. Nella parte delle attività di indagine che hanno preso il via in seguito alla segnalazione di un Ufficiale dell’Arma che aveva prestato servizio per molti anni a Piacenza, il Maggiore Rocco Papaleo, attualmente Comandante della Compagnia Carabinieri di Cremona.

Lo stesso era stato convocato presso la Sezione di polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Piacenza per essere sentito come persona informata sui fatti nell’ambito del procedimento concernente il reato di atti persecutori: discorrendo con gli inquirenti di vari argomenti, egli aveva assunto l’iniziativa di far ascoltare loro alcuni files audio salvati sul proprio telefono cellulare. Si trattava di messaggi vocali asseritamente ricevuti da un soggetto di origine marocchina e non pertinenti ai fatti per i quali era in corso l’indagine per la quale Papaleo era comparso. L’individuo in questione, che rispondeva al nome di Lyamani Hamza, dichiarava in tali messaggi di essere un informatore dei Carabinieri in servizio presso la Stazione Piacenza Levante e di aver assunto tale ruolo in virtù di una conoscenza personale con l’Appuntato- Giuseppe Montella. “Quest’ultimo, insieme ai colleghi Falanga e Cappellano, era solito  ricompensare le notizie ricevute attraverso la cessione di stupefacente, che era custodito in un contenitore presente all’interno della Caserma di Piacenza, via Caccialupo, e che era chiamato “scatola della terapia”. Quando non ritenevano esaustive le indicazioni rese dagli informatori, i Carabinieri sopra menzionati avevano l’abitudine di esercitare pressioni su di loro e di minacciarli, il tutto con la complicità del Comandante della Stazione, il M.llo Orlando” è scritto nella richiesta di custodia cautelare per i carabinieri.

Oltre a questi aspetti, i Carabinieri tenevano altri comportamenti sopra le righe, come organizzare festini a base di stupefacente ai quali partecipavano diverse prostitute, tra le quali un transessuale che abitava a Piacenza in via Torta. Montella, poi, in più occasioni aveva sottratto parte del denaro sequestrato agli spacciatori che venivano arrestati nel corso di regolari operazioni di polizia. Lyamani aggiungeva di essere disposto a formalizzare una denuncia anche a costo di essere rimpatriato, non essendo in regola con i documenti, poiché la situazione per lui non era più sostenibile. Al termine del colloquio con gli operanti della Sezione di p.g. della Procura, Papaleo aveva precisato di non aver mai riferito quanto appreso ai Carabinieri di Piacenza in quanto non si fidava degli attuali dirigenti. Egli aveva sottolineato che, comunque, nelle dichiarazioni di Lyamani poteva esserci un fondo di verità, anche perché a lui stesso era sempre parso strano come Montella ostentasse un tenore di vita – caratterizzato, ad esempio, dal frequente acquisto di automobili di grossa cilindrata – ben al di sopra di quanto ordinariamente possibile per un militare dell’Arma del suo grado.

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Sangue infetto, la famiglia di un militare napoletano morto nel 2005 sarà risarcita con un milione di euro

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Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per i familiari di un militare napoletano, deceduto nel 2005 a seguito di complicazioni derivanti da una trasfusione di sangue infetto. La sentenza storica condanna l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina, stabilendo un risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari del defunto.

Il militare, trasferitosi da Napoli a Sicilia per lavoro, subì un grave incidente durante il servizio che necessitò un intervento chirurgico d’urgenza e la trasfusione di quattro sacche di sangue. Anni dopo l’intervento, si scoprì che il sangue trasfuso era infetto dall’epatite C, portando alla morte del militare per cirrosi epatica. La complicazione si manifestò vent’anni dopo la trasfusione, rendendo il caso particolarmente complesso a livello legale.

In primo e secondo grado, i tribunali di Palermo e la Corte d’Appello avevano respinto le richieste di risarcimento della famiglia, giudicando prescritto il diritto al risarcimento. Tuttavia, la decisione della Corte di Cassazione ha ribaltato questi verdetti, affermando che la prescrizione del diritto al risarcimento non decorre dal momento del fatto lesivo ma dal momento in cui si manifesta la patologia collegata al fatto illecito.

Questa sentenza non solo porta giustizia alla vittima e ai suoi cari ma stabilisce anche un importante precedente per la tutela dei diritti dei pazienti e la responsabilizzazione delle strutture sanitarie. Gli avvocati della famiglia hanno sottolineato l’importanza della decisione, che apre nuove prospettive nel campo della giustizia sanitaria e sottolinea l’obbligo delle strutture ospedaliere di rispettare protocolli medici dettagliati, anche in situazioni di urgenza.

Il caso di Antonio (nome di fantasia) sottolinea la necessità di garantire la sicurezza nelle procedure mediche e di monitorare con rigore le condizioni di sicurezza del sangue donato, indipendentemente dalle circostanze. La sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore giustizia e sicurezza nel sistema sanitario italiano, ribadendo che nessuna circostanza può esimere dal rispetto delle norme di sicurezza e prudenza necessarie per proteggere la salute dei pazienti.

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Addio a Italo Ormanni, magistrato e gentiluomo napoletano

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Italo Ormanni, magistrato, è scomparso all’età di 88 anni. Dopo una vita dedicata alla giustizia e alla lotta contro la criminalità organizzata, Ormanni ci lascia ricordi indelebili di un uomo che ha saputo coniugare serietà professionale e un vivace senso dell’umorismo. È deceduto ieri a Roma, nella clinica Quisisana, dove era ricoverato e aveva subito un’angioplastica.

La carriera di Ormanni, iniziata nella magistratura nel 1961, è stata lunga e fruttuosa, con servizio attivo fino al 2010. Tra i casi più noti che ha seguito, ci sono stati quelli che hanno toccato i vertici della camorra a Napoli, sua città natale, e importanti inchieste su eventi di cronaca nazionale, come il rapimento di Emanuela Orlandi e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Anche nel suo ruolo di procuratore aggiunto a Roma, Ormanni ha gestito casi di grande risonanza, contribuendo significativamente alla sicurezza e alla giustizia in Italia.

Oltre al suo impegno nel campo giudiziario, Ormanni ha avuto anche una breve ma memorabile carriera televisiva come giudice-arbitro nella trasmissione “Forum”, dove ha lasciato il segno con la sua capacità di gestire le controversie con saggezza e empatia.

Amante delle arti e della cultura, Ormanni ha sempre cercato di bilanciare la durezza del suo lavoro con le sue passioni personali, dimostrando che dietro la toga c’era un uomo completo e poliedrico. I suoi funerali si terranno a Roma, nel primo pomeriggio di lunedì, dove amici, familiari e colleghi avranno l’occasione di rendere omaggio a una delle figure più influenti e rispettate del panorama giudiziario italiano.

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Falso terapista accusato di stupro, vittima minorenne

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Accoglieva le sue pazienti all’interno di un finto studio allestito in una palestra di Fondi e, una volta solo con loro nelle stanze della struttura, le molestava nel corso di presunti trattamenti di fisioterapia, crioterapia e pressoterapia, facendo leva sulle loro fragilità psicologiche e fisiche affinché non raccontassero nulla. Dolori e piccoli problemi fisici che spingevano ciascuna delle vittime, tra cui anche una minorenne, a recarsi da lui per sottoporsi alle sedute, completamente all’oscuro del fatto che l’uomo non possedesse alcun titolo di studio professionale, né tanto meno la prevista abilitazione, e che non fosse neanche iscritto all’albo. È finito agli arresti domiciliari il finto fisioterapista trentenne di Fondi, per il quale è scattato anche il braccialetto elettronico, accusato di aver commesso atti di violenza sessuale su diverse donne, tra cui una ragazza di neanche 18 anni, e di aver esercitato abusivamente la professione.

Un’ordinanza, quella emessa dal giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Latina ed eseguita nella giornata di oggi dagli agenti del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, arrivata al termine di un’indagine di polizia giudiziaria svolta su delega della Procura di Latina. Durata all’incirca un anno, quest’ultima ha permesso di svelare, attraverso le indagini condotte anche con accertamenti tecnici, acquisizioni di dichiarazioni ed esami documentali, i numerosi atti di violenza da parte dell’uomo nei confronti delle pazienti del finto studio da lui gestito. Tutto accadeva all’interno di un'”Associazione sportiva dilettantistica” adibita a palestra nella città di Fondi, nel sud della provincia di Latina: quella che il trentenne spacciava per il suo studio, sequestrata in queste ore dalle fiamme gialle quale soggetto giuridico formale nella cui veste è stata esercitata l’attività professionale, in assenza dei prescritti titoli di studio, della prevista abilitazione e della necessaria iscrizione all’albo, nonché dei locali, attrezzature e impianti utilizzati. Un’altra storia di abusi a Lodi.

Vittima una ragazza siriana di 17 anni arrivata in Italia per sfuggire alla guerra e al sisma del 2023: finita nelle mani dei trafficanti è stata sottoposta a violenze e maltrattamenti e poi abbandonata. La Polizia, coordinata dalla Procura di Lodi e dalla Procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha arrestato i due aguzzini.

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