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Cinema

Braucci, scrittore e sceneggiatore di successo: “Napoli deve avere una scuola di alta formazione professionale per fare cinema”

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Una scuola pubblica di Arti e Mestieri del cinema per la Campania: è la proposta lanciata ai ministri Franceschini e Manfredi dallo sceneggiatore Maurizio Braucci insieme ad un gruppo di professionisti campani del mondo del cinema. Una scuola innovativa che coniughi la teoria e la pratica e integri l’offerta formativa già presente sul territorio. Ad oggi, un ragazzo campano che sceglie di fare cinema è costretto a spostarsi a Roma o a Milano se vuole ricevere una formazione di alto livello. Da qui l’esigenza di una scuola pubblica specializzata nell’alta formazione professionale nel settore cinematografico, in un momento in cui peraltro la Campania registra un boom di produzioni televisive e cinematografiche attive sul proprio territorio. La scuola – spiega Braucci, primo firmatario della proposta – potrebbe formare professionisti del settore e diventare un punto di riferimento per tutto il Sud Italia. 

Braucci, come nasce questa iniziativa?

Nasce dall’esperienza di noi artisti e professionisti campani del cinema. Molti di noi si sono dovuti formare in altre Regioni; abbiamo subito concordato sulla necessità di estendere e completare la formazione nella nostra Regione per quanto riguarda le arti e i mestieri del cinema. C’è stata quindi un’adesione estesa e sincera: per noi è una cosa necessaria. Ho lanciato questa iniziativa e tutti quelli che l’hanno ricevuta sono stati d’accordo con me. 

Le risposte istituzionali sembrano incoraggianti…

Ci siamo rivolti contemporaneamente a tutti i potenziali interlocutori istituzionali: il Mibact, il Ministero dell’Università, il Comune di Napoli e la Regione Campania. Immediata è giunta la risposta del ministro Manfredi, che ha concordato con noi sulla necessità di una scuola di cinema. Abbiamo poi incassato l’appoggio del Comune di Napoli e un interessamento della Regione Campania, che dovrà convocare la delegazione, di cui faccio parte, rappresentativa del gruppo dei sottoscrittori della proposta.

Mauruzio Braucci. In una foto scattata al Festival del Cinema di Venezia per presentare il film “Martin Eden” assieme agli attori Luca Marinelli e Jessica Cressy e al regista Pietro Marcello

Qual è il vostro obiettivo? 

Miriamo ad ottenere un incarico istituzionale da parte della Regione, sulla spinta del ministro Manfredi, per dare vita ad un comitato che progetti la scuola. Pensiamo ad una scuola pubblica per le Arti e i Mestieri del cinema, con una didattica moderna, capace di unire la pratica e l’esercizio con una solida formazione teorica. Una scuola internazionale, che possa essere un punto di riferimento non solo per la Campania, ma per tutto il Sud Italia. Così facendo, potremmo contribuire ad interrompere la diaspora di giovani dalla Campania e al contempo attrarre ragazzi da altre Regioni. 

Le produzioni attive in Campania in questi anni sono aumentate sensibilmente.

In questi anni il comparto è cresciuto tanto. Se qualifichiamo ulteriormente gli operatori di un settore in crescita, investendo nella loro formazione, riusciamo non soltanto ad accrescere l’occupazione locale, ma anche a diventare promotori e non più solo ospiti di produzioni altrui. La scuola potrebbe far crescere il comparto quantitativamente e qualitativamente. Potrebbe essere inoltre un modo per completare la formazione impartita alla Federico II e all’Accademia di Belle Arti.

Quale modello didattico per la scuola?

Vorremmo che la scuola fornisca una formazione teorica forte, ma nello stesso tempo deve esserci anche la formazione pratica, perché il cinema lo si impara facendo. Dobbiamo vedere quanto poi le istituzioni locali ci supporteranno. Ci sono chiaramente anche questioni di non sovrapposizione; sgombro subito il campo da equivoci. La Regione sta realizzando con la Film Commission il cinepolo di Bagnoli, che è tutt’altra cosa; si tratta di un polo che serve alle produzioni di volta in volta attive sul territorio, alle imprese locali che lavorano nel settore e all’Accademia di Belle Arti, che potrà fruire di nuovi spazi e didattiche, fra cui la formidabile scuola di animazione. Tre dimensioni che non si sovrappongono con la nostra. 

Un altro nodo da sciogliere è quello legato alla docenza. Pensate ad una selezione senza vincoli di graduatorie?

Noi pensiamo ad una scuola che, rispettando sempre il criterio della competenza, possa ricorrere anche alla docenza degli esperti del settore. Ci sono tanti professionisti del cinema che vorrebbero dare un contributo didattico nella loro terra d’origine. Pensiamo quindi ad un criterio didattico che sia almeno in parte indipendente dalle graduatorie. Io, per esempio, insegno alla Luchino Visconti di Milano, dove tengo un corso di approfondimento ed analisi della sceneggiatura e insegno a ragazzi che hanno già ricevuto le basi da un docente; questo potrebbe essere un criterio interessante, corsi di approfondimento affidati ai professionisti del settore.

Crede che la scuola potrebbe contribuire anche a combattere il problema della disoccupazione giovanile nella nostra Regione?

Io credo che un aspetto fondamentale per i giovani in Campania e al Sud in generale sia quello della formazione. Abbiamo in alcuni casi una disoccupazione strutturale, che si tramanda di padre in figlio. Questo avviene anche perché spesso i ragazzi non sono semplicemente disoccupati, ma sono inoccupabili: privi di formazione, complice l’evasione scolastica, problematiche familiari, contesti sociali difficili, potranno sempre e solo arrangiarsi con lavori occasionali, pagati male e in nero. Dare una qualifica ai giovani soprattutto delle fasce sociali medio-basse è un toccasana. Nel cinema abbiamo notato che spesso i ragazzi campani hanno una formazione e un’esperienza inferiori ad altri, per cui capita che gli vengano preferiti colleghi formatisi in altre Regioni. Bisogna potenziare l’aspetto formativo per poter partire alla pari con gli altri.

Come sta cambiando il cinema? 

Il cinema sta attraversando profonde trasformazioni. Cambia il ruolo delle sale, cambia la tecnologia utilizzata, cambiano i modelli di cinematografia e la tipologia di prodotti. Il ruolo degli audiovisivi è reso sempre più rilevante da internet e dalle piattaforme di streaming. Si profila un cinema in cui la distribuzione avviene sempre più per mezzo delle piattaforme di streaming e i produttori sono essi stessi distributori. Nello stesso tempo credo che assumeranno importanza quelle piccole sale che facendo attività locale, con il cinema d’essai, laboratori, dibattiti, incontri con i registi, contribuiscono alla formazione cinematografica dello spettatore. Da una parte vedo quindi la crescita inevitabile di un cinema che puoi consumare a casa, dall’altra la riscoperta delle piccole sale indipendenti: una compresenza fra passato e futuro.  

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Oppenheimer sbanca agli Oscar, il film su papà della bomba atomica fa incetta di premi

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‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan sbanca gli Oscar: la pellicola porta a casa 7 statuette su 13 candidature, ma tutte le piu’ importanti – film, regia, attori maschili protagonista e non protagonista – e aggiunge premi prestigiosi a quello gia’ assegnato dal pubblico. Basato sul libro vincitore del premio Pulitzer ‘American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer’ di Kai Bird e Martin J. Sherwin, frutto di due decenni di ricerche, il film di Christopher Nolan parla di una delle figure piu’ geniali e controverse del XX secolo considerato il padre della bomba atomica.

In ‘Oppenheimer’ Nolan racconta in un film di tre ore, per meta’ in bianco e nero che ha incassato quasi un miliardo di dollari (958 milioni), la parabola e i dilemmi morali del grande fisico che fu a capo del Progetto Manhattan, attivato in gran segreto dagli Usa nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, mentre le sorti del conflitto sembravano ancora favorire al Germania nazista. Il governo americano scelse il brillante scienziato, nato nel 1904 da genitori tedeschi di origini ebraiche, a capo del team riunito nei laboratori di Los Alamos, nel deserto del New Mexico. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo.

Nel suo team il regista inglese ha voluto alcuni collaboratori storici che, come lui, tornano a casa con l’Oscar: i produttori Emma Thomas e Charles Roven, il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, con cui gia’ aveva girato ‘Interstellar’, ‘Dunkirk’ e ‘Tenet’. E Jennifer Lame per il montaggio e il compositore Ludwig Goransson (gia’ Oscar per ‘Black Panther’).
Oltre al neo premio Oscar Cillian Murphy, ‘Oppenheimer’ ha un grande cast, a partire da Robert Downey Jr. (anche lui premiato con l’Oscar) nei panni del capo della Atomic Energy Commission, Lewis Strauss.

Poi Emily Blunt nella parte della moglie del fisico, Matt Damon in quelli del generale che diresse il Progetto Manhattan, Leslie Groves, e Florence Pugh nei panni di Jean Tatlock, l’amante dello scienziato, oltre a Gary Oldman nel ruolo del presidente Harry Truman (poco piu’ di un cameo, ma davvero magnifico) e Kenneth Branagh in quello di Niels Bohr, il padre della fisica quantistica.

Nel suo film, Christopher Nolan traccia un ritratto a volte un po’ didascalico e non privo di qualche inesattezza o omissione (il rapporto con Albert Einstein un po’ esagerato e quello con Enrico Fermi troppo sottovalutato) di Robert Oppenheimer, unica persona, il solo scienziato, in grado secondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba di motivare gli scienziati di Los Alamos e di farsi seguire nel progetto forte del suo carisma e della sua tenacia. Oppenheimer colpi’ il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticita’. Piu’ di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare.

Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione. Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

 

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Addio a Paolo Taviani, con Vittorio rigore e impegno civile

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Rigore e impegno civile: questa la cifra dei Taviani, la coppia più affiatata di tutte, quei fratelli toscani che scesero a Roma negli anni ’50 per cambiare il mondo e riuscirono a cambiare il cinema italiano. Dopo la scomparsa di Vittorio, il 15 aprile 2018, se ne va oggi a 92 anni, nella clinica villa Pia di Roma, dopo una breve malattia, anche Paolo. Lunedì 4 marzo la cerimonia laica funebre alla Promototeca del Campidoglio, dalle 10 alle 13. Il suo ultimo film, in solitario, “Leonora addio”, presentato in concorso a Berlino nel 2022, segue il rocambolesco viaggio delle ceneri di Pirandello, da Roma ad Agrigento, a quindici anni dalla sua morte: “Siamo cresciuti insieme io e Vittorio e sempre lavorando”, ha raccontato Paolo in quella occasione.

“Sento ancora dietro di me il suo fiato. Anche a lui piaceva molto il set e mi ricordo ci litigavamo le scene, quando toccava a me e avevo finito di girare cercavo la sua approvazione e confesso l’ho fatto anche adesso in questo primo film senza di lui”. Quel suo ultimo film lo ha voluto in bianco e nero, come in un ideale ritorno agli esordi di quel cinema, firmato Paolo & Vittorio Taviani, che fin dagli anni ’50 ha tracciato un’ideale linea di confine tra il magistero del Neorealismo e un nuovo cinema realista, volutamente ideologico e poetico insieme. Nati a San Miniato, vicino a Pisa, da una famiglia borghese, con padre avvocato e antifascista, i Fratelli Taviani arrivano a Roma con un’idea ben chiara nella testa: fare il cinema, suggestionati dalla scoperta di “Paisà” (Rossellini è il maestro dichiarato), emozionati da “Ladri di biciclette”.

“Quando il film uscì – ha raccontato Paolo – fu un altro innamoramento, e come in ogni innamoramento la fidanzata la si vuole vicina. Ma in provincia i film appaiono e si dileguano, i film italiani in particolare in quegli anni. E noi due l’abbiamo inseguito, quel film, in bicicletta, in treno, da Pisa a Pontedera a Livorno a Lucca. L’abbiamo visto e rivisto perché avevamo deciso di riscrivere a memoria la sceneggiatura, con i dialoghi, i carrelli, gli stacchi: volevamo possedere quel linguaggio”.

Ma sono modelli che poi si sono trasformati in consapevolezza interiore, tanto che i due fratelli hanno sempre negato di avere un solo riferimento e di amare soprattutto il confronto con la letteratura; anche la collaborazione con Valentino Orsini (al loro fianco all’esordio) e con il produttore più fedele (l’ex partigiano Giuliani De Negri) è sempre stato più un confronto ideologico che una guida estetica. Dal sodalizio sono nati film che hanno segnato la storia del cinema come il profetico “Sovversivi” sulla fine della fiducia cieca nel comunismo reale e il visionario “Sotto il segno dello scorpione” a cavallo con la repressione in Cecoslovacchia; hanno anticipato il fallimento dell’utopia rivoluzionaria attingendo alla storia del Risorgimento con “San Michele aveva un gallo” e “Allosanfan”. Nel 1977 hanno vinto la Palma d’oro con “Padre padrone” e otto anni dopo trionfano ancora a Cannes con il loro più grande successo, “La notte di San Lorenzo” (Premio speciale della giuria). È dell’84 il loro incontro con Pirandello e le novelle di “Kaos” seguito nel ’98 da “Tu ridi”; nel 2012 dopo una lunga parentesi che li ha visti confrontarsi con il racconto televisivo, hanno vinto il Festival di Berlino con “Cesare deve morire”.

L’ultima collaborazione è del 2017 con “Una questione privata” che Paolo dirige da solo, mentre il fratello Vittorio è costretto a rimanere a casa per la malattia che lo avrebbe portato via pochi mesi dopo. Da allora Paolo Taviani si è definito “un mezzo regista” perché metà di lui non c’era più sul set, si sentiva “un impiegato del cinema perché in fondo – spiegava – Vittorio ed io lavoriamo da sempre con certe regole e un certo ritmo, magari nel tempo rallentato dall’età che avanza ma sempre guidato da un rigore di fondo come quello degli impiegati di una volta. I film cambiano, io molto meno e continuo a pensare che facciamo questo mestiere perché se il cinema ha questa forza, di rivelare a noi stessi una nostra stessa verità, allora vale la pena di metterci alla prova”. Con oltre venti film alle spalle (senza contare documentari, pubblicità e qualche corto disperso come l’ultimo episodio di “Tu ridi”) altrettanti premi maggiori e un Leone d’oro alla carriera (nel 1986), i due fratelli hanno dimostrato che passione, costanza, rigore e fedeltà al reale possono essere premiati.

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Alessandro Magno è gay? La Grecia contro Netflix

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La Grecia è scesa in campo contro Netflix per un docudrama britannico su Alessandro Magno che suscita controversie sulla rappresentazione della relazione tra il grande condottiero macedone e il suo generale Efestione come un amore omosessuale. Lina Mendoni, ministra della Cultura del governo di Atene, ha bollato la serie televisiva “Alexander, the making of a god” (Alessandro, la creazione di un dio) come “una fiction di qualità estremamente bassa e pessimo contenuto, piena di inesattezze storiche”. Riguardo alla descrizione dei due protagonisti come gay, Mendoni ha sottolineato che “non c’è alcuna menzione nelle fonti dell’epoca di un rapporto che vada oltre l’amicizia”.

La questione è giunta al dibattito in Parlamento, dove Dimitris Natsiou, presidente di Niki, un partito cristiano ortodosso greco di estrema destra, ha condannato il serial come “deplorevole, inaccettabile, antistorico”, sostenendo che “l’obiettivo subliminale è dare un’idea dell’omosessualità come perfettamente accettabile nei tempi antichi, una tesi priva di basi”.

Sulle questioni sollevate dalle rappresentazioni storiche e sessuali della serie, gli specialisti offrono opinioni divergenti. Il professor Lloyd Llewellyn-Jones, docente di storia antica all’università di Cardiff, sostiene che “le relazioni fra persone dello stesso sesso erano decisamente la norma attraverso tutto il mondo greco”. Viceversa, Thomas Martin, docente di storia greco-romana al College of the Holy Cross, Massachusetts, nota che Omero non ha mai identificato Alessandro ed Efestione come amanti nell’Iliade, benché tale interpretazione sia stata avanzata successivamente.

Mentre alcuni esperti, come Martin e Christopher Blackwell della Furman University, ritengono che i rapporti omosessuali non fossero diffusi al tempo di Alessandro il Macedone, altri come Robin Lane Fox di Oxford sostengono che l’amore tra uomini non fosse fuori dalla norma. Tuttavia, tutti concordano sul forte legame tra Alessandro e il generale, testimoniato dalla testimonianza dei contemporanei.

La ministra Mendoni riconosce la complessità del concetto di amore nell’antichità ma respinge l’idea di intraprendere azioni contro Netflix, affermando che “non è compito del governo censurare, sull’arte ognuno può avere diverse opinioni”.

Questa controversia non è isolata: l’anno scorso, il ministro delle antichità egiziano criticò Netflix per la scelta di far interpretare Cleopatra da un’attrice nera nella serie “Queen Cleopatra”. Inoltre, la serie “The Crown” è stata oggetto di polemiche per presunte distorsioni storiche nella rappresentazione della famiglia reale inglese.

La discussione su come rappresentare accuratamente la storia attraverso i mezzi di intrattenimento continua a sollevare domande complesse sulla verità storica, l’interpretazione artistica e le sensibilità moderne.

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